Biografia
Franco Cardini, docente dal 8 al 15 luglio 2006 alle
Vacances della Storia sul tema: "Cos’è Europa cos’è Islam", è nato a Firenze il 5 agosto del 1940.
Laureato
in Lettere presso l'Università della sua città natale, per qualche
tempo è stato professore di scuola superiore; in seguito ha insegnato
in diverse università, quali, ad esempio, quelle di Middlebury e di
Barcellona. Divenuto Professore Ordinario, dall'85 all'89 ha insegnato
Storia Medievale all'Università di Bari e, dal 1989, ha ottenuto la
cattedra di Storia dell'Insegnamento presso l'Università di Firenze.
Nel 1994 ha vinto il Premio "Tevere" per la Storia. Attualmente è
professore ordinario di Storia Medievale presso l'Università di Firenze
e, dal 1997, è Membro del Comitato Consultivo del Mystfest di Cattolica
(FO) e del Consiglio di Amministrazione dell'Ente Cinema S.p.A.
Uomo
eclettico, dalle molteplici inclinazioni, studioso, scrittore,
giornalista e uomo politico, Franco Cardini è riuscito a trovare una
sua dimensione in tutti questi ambiti conciliando con stile idee e
posizioni che ai più risulterebbero antitetiche e provocatorie. E’
politicamente parlando un cattoanarchico di destra con idee sociali di
estrema sinistra. Ama il vino rosso, i viaggi, la musica di Mozart e i
gatti: non necessariamente in quest’ordine.
Dice di sé in
un’intervista televisiva per Rai Educational: “Essendo nato nel 1940
non appartengo alla baby boom generation, cioè alla generazione di
coloro che sono nati dopo il '45, o dal '45 in poi, che sono i
perseguitati dal complesso della bomba atomica, come diceva Hannah
Arendt. E che, pare, siano quelli che "hanno fatto" il '68. Io il '68
l'ho fatto un po' a modo mio, perché ero già ventisettenne, avevo
discusso la mia tesi di laurea, finito il mio servizio militare, ed ero
giovane assistente nell'Università di Firenze. Ho partecipato, in
qualche modo, al movimento del '68, in una posizione un po' defilata,
ma compartecipe.” Continua poi con grande auto-ironia: “Conservo ancora
a casa l'eskymo del '68, che non mi entra più, perché il '68 per me è
avvenuto molti chilogrammi or sono, e conservo anche la barba del '68,
che mi feci crescere, per l'occasione, profittando anche di una certa
giovanile somiglianza con Fidel Castro, che poi, purtroppo per me, è
andata svanendo. Purtroppo per me, perché lui è molto più bello di
me.”
Tra i volumi più recenti segnaliamo:Noi e l'Islam: un incontro possibile?, Laterza (1994)
coautore de
Il Cavallo impazzito; Giunti (1995)
Scheletri nell'armadio, raccolta di scritti giovanili; Akropolis (1995)
Il giardino d'inverno, romanzo; Camunia (1996)
L'avventura di un povero crociato, romanzo; Mondadori (1997)
Per essere Franco. Le rabbie di uno che non sta bene a nessuno, Rimini, Guaraldi, 2003, pp. 141.
Astrea e i Titani. Le lobbies americane alla conquista del mondo, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. XII-204.
Le crociate in Terrasanta nel medioevo, Rimini, Il Cerchio, 2003, pp. 139.
Storia illustrata di Prato, Pisa, Pacini, 2003, pp. 217.(con Leonardo Gori)
Lo specchio nero, Milano, Hobby and Work, 2004, pp. 429.
Breve storia di Prato, Pisa, Pacini, 2004, pp.158.
L’invenzione dell’Occidente, n.ed., Rimini, Il Cerchio, 2004, pp. 254.
(con M. Montesano)
La lunga storia dell’Inquisizione. Luci e ombre della “leggenda nera”, Roma, Città Nuova, 2005, pp.189.
La globalizzazione. Tra nuovo ordine e caos, Rimini, Il Cerchio, 2005, pp.125.
Selezione di articoli da quotidiani e riviste
TURCHIA ED EUROPA, di Franco Cardini
L’Europa è in
maggioranza cristiana, ma non è un “club cristiano”: ormai, si
sta anzi creando un “Islam europeo”, al quale appartengono sia molti
cittadini europei originari di paesi musulmani che però in tempi
diversi si sono naturalizzati là dove si sono radicati acquistando
lingua, diritti civili e anche, in differente misura, atteggiamenti
mentali, sia molti europei che hanno abbracciato l’Islam come
religione senza che ciò impedisca loro di restar a tutti gli
effetti, sotto il profilo civile e culturale, quel che erano da
prima.
"Islam e scienza sono davvero nemici?" di Franco Cardini
E'
il solito, vecchio tormentone: ci risiamo. Stavolta è "l'Unità"
di ieri a tornarci sopra: sia pure con molta misura. È vero che
l'Islam è "nemico" della scienza? E, se è vero, perché? L'Islam è,
storicamente non meno che geoculturalmente parlando, una realtà
articolata e composita: come si fa a qualificare di "ostile alla
scienza" il mondo che ci ha dato Avicenna e Averroè, l'algebra e la
chimica, e dal quale sono usciti scienziati come Abdus Salam,
pakistano, Premio Nobel per la fisica?
Eppure è stato proprio
lui, d'altronde, a segnalare come nel "Commonwealth musulmano" la
scienza sia "debolmente rappresentata". La scienza moderna, così come
noi l'intendiamo - fondata cioè sull'esperienza diretta,
l'indagine di laboratorio, e priva di qualunque legame con "visioni del
mondo" teologiche o filosofiche - è parte fondamentale della sostanza
stessa dell'Occidente in quanto modernità. La stessa nostra scienza
europea ancor fondata sul funzionalismo aristotelico cristianizzato
dalla scolastica, la scienza cioè precedente Copernico, Galilei e
Newton, era qualitativamente altra cosa: e difatti, non a caso
essa era largamente debitrice del pensiero islamico e compatibile con
esso. L'Islam non ha di per sé mai diffidato né di scoperte, né di
invenzioni. Dalle tecniche agricole alle invenzioni meccaniche, il
nostro medioevo gli fu - tra X e XIII secolo - profondamente
debitore.
Vero è tuttavia che, successivamente, avvenne il
"sorpasso": a partire dal XIII secolo e quindi con più forza tra XVI e
XVIII secolo dalla nostra Europa uscì a catena una serie di rivoluzioni
che non hanno qualitativamente alcun confronto con altri periodi e
altre culture della storia umana (nemmeno con l'antichità
greco-romana). Una rivoluzione commerciale e creditizia, quindi una
nautica e cartografica, poi una geografica che condusse alle grandi
scoperte, infine una filosofico-scientifica che fondò il metodo
sperimentale. Ad esse tennero dietro le rivoluzioni politiche e sociali
del Sette-Novecento. Ne uscì, appunto, una civiltà dalle radici antiche
ma dall'aspetto del tutto nuovo. Ma i risultati della scienza,
verificabili nel campo della tecnologia, non sono mai stati avvertiti
come ostili all'Islam. Fra Cinque e Novecento sultani turchi, shah
persiani, sultani moghul ed emiri arabi hanno fatto a gara
nell'aggiudicarsi ingegneri, cannonieri, architetti, medici e analisti
occidentali. Il fatto è che essi hanno continuato a lungo a giudicare
la scienza e la tecnologia come qualcosa di esterno e di estremo, che
si potesse tuttavia acquistare da fuori. Ciò ha determinato fino a
pochi decenni fa il quadro di quelle islamiche come una scienza e una
tecnologia "dominate". Le cose stanno cambiando appunto da alcuni
decenni, e in modo non uniforme. La ricerca scientifico-tecnologica,
nel mondo musulmano, è forte in paesi come Turchia, Iran e Malaysia,
dove più lucidamente ci si va ponendo anche il problema del rapporto
con la globalizzazione, l'economia capitalistica, la democrazia,
l'informazione e la catena produzione-profitto-consumo. Qui sta appunto
il dilemma: stabilire fino a che punto sia possibile modernizzare
l'Islam e al tempo stesso, e in quale senso, islamizzare la modernità.
Lo stesso variegato fronte "fondamentalista" non presenta alcuna
rigorosa pregiudiziale antiscientifica (i problemi possono invece
presentarsi sul piano di alcune applicazioni tecnologiche). La storia
musulmana, almeno in alcuni paesi dell'Islam, è rimasta a lungo almeno
in apparenza "immobile": ma l'Islam è, per sua natura, flessibile e
ricettivo. I problemi, semmai, sono quelli della lentezza del processo
di adeguamento, delle difficoltà (anche socioeconomiche) legate alla
riforma dei sistemi scolastici e alla diffidenza politica, morale e
religiosa con la quale una parte dei musulmani guarda alla nostra
cultura.
> tratto da Avvenire-17 dicembre 2002 (ripreso da www. swif.it)
"Il nemico dell'Occidente. Un concetto ambiguo e dinamico" di Franco Cardini
Credo
che abbia ragione Massimo Fini ne Il vizio oscuro dell'Occidente
(Marsilio), quando osserva che all'Occidente moderno (o, se si
preferisce, alla Modernità: giacché i due termini sono in realtà
sinonimi) ben si attaglia l'autodefinizione, rovesciata, che
Mefistofele dà di se stesso nel Faust di Goethe: "Io sono lo spirito
che vuole sempre il Male ed opera eternamente il Bene". Il che
equivarrebbe a sostenere, se si volesse essere un tantino pesanti, che
l'Occidente ha il tocco di Mida al contrario, e quel ch'esso tocca non
è proprio in oro che si trasforma. E intendiamoci: a giudicare da
taluni devastanti effetti della globalizzazione, si direbbe che le cose
stiano proprio così.
L'eroe fondatore dell'Occidente moderno - ben
l'ha capito un grande storico, David S. Landes - è Prometeo. In una
splendida tela di Gustave Moreau, che si conserva nel suo museo
parigino, l'eroe che si sacrifica per l'umanità ha gli inequivocabili
tratti del Cristo: e il suo supplizio, incatenato su un picco
caucasico, richiama con una forza trascinante la crocifissione. È
l'eroismo umano divinizzato, il Cristo immanentizzato nell'umanità
(Immanentizzazione, ch'è cosa ben diversa dall'Incarnazione), perfetta
rappresentazione del mito romantico e progressista dell'Occidente che
infrange ogni vincolo e ogni ostacolo, che disobbedisce agli dèi e si
fa dio di se stesso, che pretende di fare soltanto il Bene per il
semplice, tautologico fatto che ritiene sempre bene quel che fa: al
pari del vecchio ottimismo storicistico, secondo il quale tutto quel
che accadeva era bene perché accadeva ed accadeva perché era bene.
Ritenendosi
realizzatore del migliore dei mondi possibili e scopritore-inventore
della formula costitutiva di un inscindibile insieme di libertà,
verità, giustizia, ragione, tolleranza e ricerca della felicità,
l'Occidente moderno non è praticamente disposto a tollerare in alcun
modo "l'Altro da Sé"; esso non può accettare alcuna forma di civiltà
che sia diversa dalla sua ma di pari dignità né ritenere possibile che
possano esistere alternative (e, meno ancora, ch'esso possa essere in
torto). Gli apologeti dell'Occidente, confondendo tra relativismo etico
e relativismo antropologico, mostrano d'ignorare la grande lezione
lévistraussiana secondo la quale ciascuna civiltà va giudicata nel suo
complesso e non c'è nulla di più improponibile di isolarne i singoli
componenti per esaminarli alla luce di principî che non sono i suoi.
Ne
consegue che l'Occidente moderno è affetto dall'infezione totalitaria
espressa dal suo "pensiero unico" che lo conduce a concepire un unico
modello di sviluppo per tutta l'umanità. Esso è, inoltre, vittima d'una
schizofrenia irremissibile tra la tolleranza e i diritti dell'uomo,
valori che ritiene fondanti della sua identità, venera a parole e
sostiene di difendere, e il nucleo duro e profondo della sua realtà
fondata sull'avere e sul fare anziché sull'essere: la Volontà di
Potenza. La folle neoideologia dell'"esportazione della democrazia"
proposta dal gruppo dei neoconservative ispiratori della politica del
presidente Gorge W. Bush jr., il gruppo dei Wolfowitz, dei Perle, del
Kagan, dei Rumsfeld, si fonda sulla vertigine di questa persuasione di
eccellenza e di superiorità, sulla convinzione di un "destino
manifesto" in grado e in diritto di estendere a tutto il mondo quel
"cortile di casa" che, nella tesi isolazionista di Monroe formulata nel
1823, si estendeva all'intero continente americano. Che poi questa
sconfinata volontà di potenza, questa ineusaribile ricerca del
benessere, della sicurezza della felicità, finisca in realtà col
rendere chi cade in questo vortice eternamente insicuro, infelice e
inappagato, è un altro discorso: ma nasce proprio da qui il rischio
della "guerra infinita" nella quale i cantori del nuovo Occidente
rischiano di trascinarci.
Ma, sul piano delle definizioni, siamo nel
campo d'un infinito equivoco. L'Occidente sembra oggi una "cosa" reale,
un termine chiaro che indica un soggetto preciso: quella "civiltà
occidentale" che, secondo Samuel P. Huntington, corre il rischio di
venire assalita da altre civiltà, compatte e ben delineate come la sua
ma ad essa ostili. Peccato che si tratti soltanto, al contrario, di
nomina nuda. "Occidente" non è una cosa, una realtà geostorica o
geoculturale: è una parola equivoca, che ha subito nel tempo una serie
di slittamenti semantici e il cui attuale significato è tanto recente
quanto equivocamente e perversamente diverso da come lo intendono molti
europei convinti che esso ed Europa siano quasi sinonimi.
Il che,
intendiamoci, è peraltro etimologicamente vero. Giovanni Semerano ha
dimostrato che la parola "Europa" nasce da una radice accadica passata
poi nel greco erebos e indicante, appunto, il luogo dell'orizzonte nel
quale il sole tramonta, laddove la parola "Asia", al contrario, deriva
da un altro termine accadico indicante l'alba. Se ci si potesse
limitare ai semplici valori etimologici, l'identità tra Europa e
Occidente (e tra Asia e Oriente) sarebbe perfetta. Ma questo non è,
purtroppo, un lusso che ci si possa permettere quando si vuol evitare
di cadere in trappole grossolane.
Al di là dell'antica
contrapposizione tra Asia ed Europa, celebrata in un passo immortale de
I Persiani di Eschilo, l'attrazione e la fusione dei valori "orientali"
(asiatici) e di quelli "occidentali" (ellenici e poi romani) è passata
attraverso le grande sintesi ellenistica, avviata da Alessandro Magno e
perfezionata da Cesare - erede del grande pensiero maturato attraverso
il "circolo degli Scipioni" - e dalla cristianizzazione dell'impero. I
termini "Oriente" e "Occidente", nel mondo tardoantico e medievale,
sono stati certo utilizzati: ma nella prospettiva del rapporto tra la
pars Orientis e la pars Occidentis dell'impero romano uscito dalla
spartizione imposta dal testamento di Teodosio, alla fine del IV
secolo. Ai primi del XII secolo un cronista della prima crociata,
Fulcherio di Chartres, celebrando il fatto che "franchi" e "italici"
dopo la conquista della Terrasanta si fossero impiantati in Palestina,
sosteneva che di "occidentali" essi si erano fatti "orientali". Ma non
si andava neppure con ciò al di là della distinzione d'origine
teodosiana.
Nonostante quanto oggi si crede, l'uso corrente
d'identificare la "nostra" con la "civiltà occidentale" è recente.
Ancora ai primi del XX secolo, si parlava piuttosto d'Europa, per
quanto io tenda a vedere "l'invenzione dell'Occidente" in quel
proiettarsi dell'Europa oltre i suoi confini che si è verificato a
partire dalla fine del XV secolo e ha coinciso con l'inizio dell'età
delle grandi scoperte e delle conquiste geografiche. Il nascere
dell'orientalismo come corrente estetico-letteraria, certo, prospettava
una qualche distinzione Oriente-Occidente; ma il secondo termine
restava sinonimo di Europa. Oswald Spengler, parlando di un Tramonto
dell'Occidente, pensava soprattutto all'Europa. Anche gli storici che
hanno ustato con sicurezza i termini di "Occidente" e di "civiltà
occidentale", come Christopher Dawson e Elijahu Ashtor, non sono andati
al di là d'una distinzione che implica diversità ma non appare come
contrapposizione. Si potrebbe comunque, tra Cinque e Novecento, seguire
l'itinerario di un costante collegamento tra l'idea di sviluppo, di
dominio tecnologico, di razionalità-ragione, di progresso, e
l'Occidente inteso, come appunto l'Europa, in crescente contrasto con
un "Oriente" (o con più "Orienti") luogo (luoghi) della tradizione,
dell'immobilità, del sogno, della magia, del favoloso-irrazionale. La
civiltà europea sentita da Hegel come "la grande sera" del giorno della
civiltà umana è forse il punto d'arrivo del maturare di questa
concezione.
Il mutamento importante che riguarda i nostri giorni ha
radice però nella pubblicistica statunitense. Come dimostra molto bene
Romolo Gobbi nel suo America contro Europa (MB Publishing) è nel XIX
secolo che scrittori e politici statunitensi guardano al loro
continente e agli States come a quell'Occidente di libertà contrapposto
al quale c'è un "Oriente" che gli europei non si aspetterebbero:
l'Europa, appunto (del resto ineccepibilmente e obiettivamente a est
dell'America), terra dell'autoritarismo, della tradizione, degli
infiniti ceppi teologici e giuridici che imbrigliano la libertà.
Quest'identità
statunitense di Occidente e libertà è tornata, dopo Yalta, a
sostanziare di sé la nuova dicotomia del potere sull'ecumene, distinta
ormai fra un "Mondo libero" e un "Mondo socialista": due mondi che
appunto s'incontravano e confinavano nella Cortina di Ferro che
tagliava in due l'Europa; e che convergevano nel far sparire il
concetto stesso di Europa. La fine del tempo dell'equilibrio tra le due
superpotenze (guerra fredda sì, ma anche spartizione e sotto molti
aspetti complicità) ha condotto con chiarezza a una nuova situazione,
definita appunto da Samuel P. Huntington: l'Occidente come cultura
unitaria e compatta, ma caratterizzata dalla leadership della volontà
politica e dei valori elaborati dagli Stati Uniti, cui la "vecchia
Europa" è chiamata in molti modi a uniformarsi e rimproverata di non
uniformarsi abbastanza. Dinanzi a questo nuovo "Occidente", l'Europa -
conforme del resto anche alla realtà geografica del globo - dovrebbe
forse rintracciare la sua vocazione di civiltà nata e cresciuta in
stretto contatto con il mediterraneo, l'Asia e l'Africa, e alla luce di
ciò rivendicare un ruolo di cerniera con gli "Orienti". Essere
occidentali ed essere europei non è più sinonimo.
> tratto da Golem-L'Indispensabile n. 4 aprile 2003"Fallaci bis è già un classico (a modo suo)" di Franco Cardini
Questo
libro non va letto come un lavoro di documentazione sui rapporti fra
Europa e islam, ma all'interno di una sorta di genere letterario: è una
perorazione crociata, è un frutto quasi fuori del tempo di un odio e di
una passione invincibili. In questo senso, considerando il valore e il
successo dell'autrice, la sua straordinaria personalità e il suo
trascinante fascino, Oriana Fallaci è capace di scrivere soltanto dei
classici.
Senza dubbio affascinante, questo nuovo libro di Oriana
Fallaci del quale tanto sì sta parlando e che sarà un secondo
best-selIer, dopo «La rabbia e l'orgoglio». Che cosa vuol dire Eurabia?
É un neologismo geografico che la gìomalista ha concepito per
qualificare qualcosa che le sembra assolutamente orrìbile e mostruoso.
L’Europa sta cadendo in mano all'islam. Questo il concetto già
ampiamente illustrato e ripetuto nel primo libro che la Fallaci
dedicava all'argomento, e ripreso adesso nel nuovo «La forza della
ragione».
Oriana Fallaci ha una sua forte lucidità, che
qualche volta sconfina, bisogna dirlo, nella perentorietà del
semplicismo. Niente articolazioni, niente dialogo, niente
compenetrazione reciproca. La storia dei rapporti fra Occidente e
islam? Una guerra assoluta e contìnua, da sempre. La storia delle
integrazioni reciproche? Inesistente. Stessa mancanza di sfumature e di
riconoscimento di diversità quando si parla dell'islam: via le
diversità, via i diaframmi. Il mondo islamico, appare come una forza
bruta e cieca, guidata solo dalla sua sconfinata volontà di
sopraffazione e della sua belluina capacità di espansione demografica.
Al di sotto di questo allargamento a macchia d'olio del mondo musulmano
sul nostro Occidente, vi sarebbe il grande complotto dei manipolatori
del <jihad». Certo, all'interno, dell'Occidente vì sono forti
differenze. Da un lato la libera e forte America, che accetta di
misurarsi anche con le armi. Dall'altro la debole e imbelle Eurona che
riesce a concepire soltanto il patteggiamento.
Secondo la
Fallaci, un musulmano che vive e lavora in Europa è comunque
refrattario all'integrazione, anzi è incapace di una qualunque leale
collaborazione. Soprattutto, la laicissima Fallaci se la prende con la
Chiesa cattolica, che ha abdicato nel nome di una vuota e vile
tolleranza a quei forti valori identitari che Oriana non ha mai
riconosciuto come propri, ma che pure rimpiange, e che rimprovera ai
preti e ai cattolici di non aver più il coraggio di difendere. Davanti
a un libro così, le possibilità di un dibattito sereno non sono
evidentemente praticabili. Se la Fallaci non fosse quella che è,
un'autrice che, quando scrive un libro, segna immancabilmente un
oceanico successo, la si potrebbe e la si dovrebbe ignorare. Diciamo la
verità: scrive spesso inesattezze. Ma le scrive col cuore, le scrive
con una straordinaria forza, le scrive anche (sia pur con qualche
caduta) mettendo in campo una straordinaria efficacia stilística.
Oriana non è grande per quello che dice, perché, glielo dico
affettuosamente, davvero non ne imbrocca una. Oriana è grande per come
sa dire queste cose, per a forza che ci mette dentro, per l'orgoglio e
l'affascinante violenza che è capace di esprimere.
Questo
libro non va letto come un lavoro di documentazione sui rapporti fra
Europa e islam, ma all'interno di una sorta di genere letterario: è una
perorazione crociata, è un frutto quasi fuori del tempo di un odio e di
una passione invincibili. In questo senso, considerando il valore e il
successo dell'autrice, la sua straordinaria personalità e il suo
trascinante fascino, Oriana Fallaci è capace di scrivere soltanto dei
classici.
> tratto da Avvenire 2 aprile 2003 (ripreso da
http://www.kelebekler.com)