centro studi asia

Tra modernità e pensiero dell'essere

Un racconto della Giornata Heideggeriana 2005
Sabato 14 maggio si sono dati appuntamento a Bologna alcuni fra i maggiori filosofi italiani per celebrare la Giornata Heideggeriana indetta dal CSA per promuovere la riflessione filosofica sulla modernità attraverso il pensiero dell’essere. Per gli studiosi del pensatore tedesco, come per i semplici appassionati accorsi numerosi nella splendida sala grande del Palazzo della Pioggia, è stata una vera festa che è diventata anche l'occasione per comporre una prospettiva di dialogo e di reciproco scambio tra l'intendimento dell'essere del pensiero occidentale e l'esperienza dello shunyata del Mahayana.
Proviamo di seguito a raccontare l'evento.

La sala è gremita quando il professore sale in cattedra. Sistema il microfono con qualche difficoltà, ma lui, per niente imbarazzato, sdrammatizza scherzando con il pubblico. Si schernisce, beve un sorso d'acqua e poi, con tono distaccato inizia a parlare. A mano a mano che si dipana, è facile rintracciare nel suo intervento i tratti caratteristici di quella interpretazione della modernità che il professore, affidandosi all'esperienza e al fascino del consumato intrattenitore di folle, va esponendo. Qua e là, infatti, spuntano frammenti di attualità politica, citazioni dall'archivio concettuale pubblico affiancate ai temi più profondi del pensiero heideggeriano. Provocazioni intellettuali e spunti ironici che fanno da contrappunto a una renitenza soffusa, tesa ad evitare ogni irrigidimento su posizioni che possano apparire professioni di verità, violazioni dello spazio relativistico aperto dalla morte di Dio. Così, in un gioco di contrapposizioni e rimandi dove nella complessità irriducibile dell'esperienza c'è posto un po' per tutte le verità, Gianni Vattimo ha interpretato il suo ruolo di difensore del nichilismo, di compiaciuto abitante del mondo post-moderno, dove la negazione di ogni metafisica ci protegge dall'imporsi di un pensiero totalizzante foriero di autoritarismi e di violenze in nome di una verità che si pretende di possedere. Per Vattimo il valore del pensiero non è più nella legittimazione di un ideologia scientifica, materialistica, spirituale o idealistica ma piuttosto nella elaborazione di un'etica negativa, che ci spogli da ogni residuo di violenza, di intolleranza, dai conflitti, dal dominio dell'uomo sull'uomo. Se questo non è ancora realtà è perché non siamo ancora abbastanza nichilisti, sembrerebbe dire Vattimo, con intenzioni radicalmente diverse da quelle di Nishitani (cfr. Nichilismo e vacuità del sé, I.U.O., a cura di Carlo Saviani). Infatti, se Vattimo intende il nichilismo come la critica dell’assolutismo di ogni valore e quindi vorrebbe smorzare ogni contrapposizione violenta criticando il fondamentalismo con il nichilismo, Nishitani invece considera anche questa una posizione fondante e quindi, per il filosofo giapponese, andare in fondo al nichilismo significherebbe andare oltre la morte di Dio per realizzare -non pensare o comprendere, ma esperire nel proprio esserci- ciò che egli chiama il “non-sostrato” e che forse nel linguaggio heideggeriano possiamo tradurre come Ereignis, l'evento.

Ma questa è la giornata heideggeriana e, nel pomeriggio, Franco Volpi ce lo ricorda, prima evocando la figura dello "sciamano della filosofia" attraverso i racconti dei suoi allievi, poi con una dettagliata sintesi della settimana di lezioni su "Comprendere la vita: la filosofia pratica di Heidegger" che terrà dal 16 al 23 luglio a Norcia, per le Vacances de l'Esprit. Volpi - reduce dalla traduzione di Essere e tempo che uscirà nei prossimi mesi per i tipi di Longanesi - ci introduce in quella che chiama "la filosofia pratica di Heidegger", rileggendo la monumentale opera appena tradotta come un tentativo di comprendere il movimento della vita e di dirigerla verso il suo compimento autentico. In Essere e tempo Heidegger critica il razionalismo cartesiano e positivista che riduce l'uomo a una serie di processi mentali ma prende anche le distanze dal vitalismo irrazionalista che, nel tentativo di recuperare l'immediatezza del fluire della vita, rinuncia alle domande della ragione. Il filosofo tedesco indica un percorso intermedio tra questi estremi che trova nella pratica fenomenologica il rigore per avvicinarsi a una comprensione della vita ma riconosce nell'opacità impenetrabile del concetto l'impossibilità di esaurire nel domandarsi filosofico la totalità dell'esperienza umana. Il comprendere è parte della vita ma non può esaurirne l'intero movimento che sfugge nell'immediatezza della corporeità, delle tonalità emotive, della gettatezza. In questa ottica il domandarsi della filosofia trova il suo valore pratico nel sottrarci allo scacco verso cui il movimento della vita sembra inevitabilmente tendere, a patto che si confronti con il proprio limite, ovvero con il riferimento all'origine del Dasein che sempre sfugge ad ogni definizione e comprensione e che fa del Dasein un progetto gettato.

L'atmosfera è densa nel pomeriggio bolognese, rinfrescato dalla pioggia che scroscia fuori dalle finestre dell'antico palazzo, mentre si avvicina al microfono Carlo Sini. La voce è intensa, espressiva, e conduce con sicurezza per le ardite vette del pensiero heideggeriano una platea che alla fine saluterà il professore con un lungo e sentito applauso. Per Sini il nichilismo vero, quello da superare e che non piacerebbe neanche a Vattimo, consiste nella realizzazione della volontà di potenza attraverso la scienza che, proprio perché vuole rovesciare i termini del platonismo, rimane all'interno della metafisica, sebbene non ne sia consapevole. L'interpretazione del pensatore bolognese mostra una possibilità di superamento del nichilismo che si rintraccia a partire da una riflessione sulla fine della filosofia e sul compito del pensiero dopo questa fine. È lo stesso Heidegger a porsi queste domande nel breve ma densissimo saggio "La fine della filosofia e il compito del pensiero" (in Tempo e essere, ed. Guida, 1980), che Sini legge, commenta e sviluppa in un finale che stupisce e lascia sospesi. La filosofia in quanto metafisica tensione alla comprensione del principio e della causa dell'ente, giunge al suo compimento proprio nel rovesciamento del platonismo operato dalla scienza e dalla tecnica che ormai si è appropriata dell'ente mostrandone la sua origine -nel senso metafisico di come è fatto e come lo si può riprodurre- estendendo con il suo potere anche il bisogno di controllo al quale nemmeno l'uomo sembra potersi più sottrarre.
Se la filosofia è finita allora quale compito rimane al pensiero?
È qui che da vero  maestro di pensiero Carlo Sini seguendo Heidegger - dà il meglio, assumendo a tratti toni poetici e spingendo a fondo la domanda sino a rivolgerla alla sua stessa origine che la metafisica non ha pensato proprio perché interessata solo all'ente. Il compito del pensiero è allora il ripensamento dell'aletheia che, siccome l'essere umano è inevitabilmente attratto dall'ente nella sua presenza, nemmeno i greci e Omero avevano inteso davvero come il disvelarsi dell'ente nella luce dell'essere. Per Heidegger invece è il fatto del venire ad essere dell'ente il da pensare come ciò che sempre si sottrae alla determinazione entificante ma che pure non può essere negato come realtà del pensiero, dell'esperienza. [C'è esperienza, se provo a negarla faccio esperienza della negazione.] Alla filosofia analitica e al suo logicismo linguistico che cerca di definire ogni cosa pena la sua inesistenza, Sini indirettamente risponde che non si può dire irrazionale o inconsistente il significato di "essere", piuttosto andrebbe considerato come il limite - in senso kantiano - della nostra possibilità di comprendere e definire, come ciò che consente all'uomo di slanciarsi oltre se stesso ma che proprio per questo è per noi il luogo oscuro per eccellenza, l'apertura che non può essere ridotta ad una definizione di verità.

Ma in questa impossibilità di determinazione oggettivante quale pensiero potrà allora corrispondere all'apertura?
Certamente non la metafisica come sovradeterminazione dell'ente supremo che diventa giustificazione dell'ente nella sua essenza. In questa impossibilità di comprensione transitiva il ruolo del pensiero, quello heideggeriano in primis, non è più quello di dare delle risposte, delle definizioni, ma piuttosto è quello di un esercizio, di una pratica che permette di stare nei pressi di quel disvelarsi dell'ente nella luce dell'essere. L'estaticità dell'esistere umano si compie nell'esercizio del pensiero, nel suo portarci a frequentare l'apertura. Ed è proprio in questo modo che la filosofia occidentale si predispone al dialogo con le culture Altre. Esaurito il dominio del soprasensibile, del concetto, dell'idea come dimensione assoluta dalla quale attingere la verità, ecco che si afferma la pratica come terreno comune di confronto e di dialogo tra le culture nel tentativo di aggirare l'ostacolo dell'intraducibile alterità. La possibilità che Sini individua come terreno comune tra la filosofia e le scienze e le sapienze altre è nel confronto delle pratiche, ovvero nel chiedersi "cosa hai fatto per diventare quel soggetto storico che tu sei?" e ancora, dice il professore, "se io esibisco le mie pratiche e ti faccio vedere cosa intendo con proposizione filosofica, allora si può creare un senso comune sulla base delle pratiche che mettono in atto degli enti."

La conclusione della giornata è stata affidata al suo ideatore Franco Bertossa, direttore del Centro Studi ASIA e maestro di meditazione, che ha convocato a sé una decina di ragazzi tra i 18 e i 20 anni per dare vita ad un dialogo sulla comprensione e il significato dell'essere in una prospettiva esperienziale e in prima persona. "Sentiamo, ci sentiamo, qualcosa sta indubitabilmente succedendo" dice Bertossa, e dall'affermazione di questo fatto irrefutabile è partito per provare a scoprire assieme agli interlocutori quale significato è possibile rintracciare e intendere nell'esperienza d'essere, nel sentirsi essere. Stimolati dalle domande con le quali il maestro bolognese ha condotto la riflessione, i ragazzi sono stati i veri protagonisti di un esperimento di maieutica che ha portato allo scoperto come noi tutti abbiamo una pre-comprensione di cosa significhi essere e lo dimostriamo in ogni momento in cui diciamo "questo c'è" oppure " non è niente, è qualcosa". L'esperienza che facciamo in questi momenti è qualcosa di particolarmente denso e stratificato che, una volta passata al setaccio dell'analisi fenomenologica, mostra la sua natura potenzialmente svelante che Heidegger ben descrive in "Che cos'è metafisica?" chiamandola "Angst". Con questa parola - dice Bertossa - egli non vuole riferirsi ad un'esperienza di angoscia psicologica che si traduce nei termini di ansietà e paura, ma piuttosto vuole esprimere quella peculiare esperienza in cui noi stessi e le cose ci sfuggono di mano e allo stesso tempo ci si serrano addosso con la loro nuda esistenza priva di usabilità e di un significato qualificante. Questo è il nienteggiare del niente per mezzo del quale ci si mostra il fatto d'essere dell'ente, il suo essere "totalmente altro rispetto al niente".

Ricostruendo questo luogo denso e originario dell'esperienza filosofica, Franco Bertossa ha acutamente evidenziato significative analogie con la vacuità (shunyata) della dottrina buddhista Mahayana. Il punto di contatto tra i due intendimenti apparentemente così lontani - nasce dal fatto che là dove la vacuità si propone come esperienza dei dharma (gli enti, le cose nel linguaggio buddhista) "privi di essenza propria", questa esprime in altre parole proprio "il nienteggiare del niente" che Heidegger intende come esperienza rivelatrice della verità dell'essere. E' su queste basi che Bertossa indica la possibilità di un superamento del nichilismo, auspicando che la filosofia e il pensiero scientifico-tecnico occidentale si aprano al dialogo con le sapienze orientali confrontandosi reciprocamente sul proprio intendimento di quanto più indubitabile, meraviglioso e prodigioso si possa esperire: "che l'essente è ente, e non piuttosto non è" o nelle parole del mistico e poeta cinese P'ang- yun:
"Quale meraviglia soprannaturale
e che miracolo è questo?
Io attingo l'acqua dal pozzo,
io porto la legna..."

Attraverso le porte della meraviglia, suggerisce Bertossa, si ha accesso alla verità ultima del Mahayana, shunyata, la vacuità e, secondo la testimonianza del Buddha, alla fine dell’angoscia e delle forze distruttive del niente.




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