Intervista a Eugenio Borgna
di Gianna Milano, tratta da “Panorama”, 20 luglio 2006
Temuta. Invocata, Contrastata. Desiderata. Rimossa. Cercata. Inaspettata. Agonica. Violenta. Dolce. Tragica. Lenta. Repentina, Noi e la morte: mai come in questi ultimi per usare le parole del filosofo francese Philippe Ariès, la morte è stata occultata negli ospedali, sottratta agli sguardi, e cancellata persino nei riti per del lutto. Eppure mai come oggi, in cui regna il mito dell’eterno di questa morte banalizza- dalle immagini virtuali della tv si par- la così tanto. Non fosse altro che per esorcizzarla. Ognuno dovrebbe avere la sua morte, e dovrebbe “fiorire da quella vita in cui ciascuno amò, pensò, e sofferse”, invocano i versi del poeta tedesco Rainer Maria Rìlke. Ma non sempre è così. C’è chi muore desiderando di continuare a vivere e combatte contro questa sfida finale con le armi della scienza medica, talora prolungando solo le sofferenze. C’è chi è costretto a continuare a vivere pur desiderando di morire. Terapie intensive e tecniche di rianimazione prolungano oggi la vita oltre i limiti biologici e consentono di sottoporre al controllo dell’uomo la linea di demarcazione fra la vita e la morte. Un tempo i bambini vedevano i nonni morire e così erano testimoni della naturalezza del processo. Nel mondo occidentale quell’essere che rimanda alla finitezza dell’uomo, come vuole il filosofo esistenzialista tedesco Martin Heidegger, sembra aver perso ogni risonanza interiore. Davvero ci si può rifiutare di dimenticare la morte, di vincerla? Basta la consapevolezza di esserle vicini a farla vivere meglio? Può cambiare la percezione della morte a seconda della cultura e della religione? A Eugenio Borgna, psichiatra, che nel suo ultimo libro, L’attesa e la speranza, elementi costitutivi della vita, ci conduce con animo poetico nella dimensione del tempo, “Panorama” ha chiesto di parlare del modo di porsi dell’uomo moderno verso questo passaggio.
Secondo la legge del contrappasso, ciò che ci attende nell’aldilà dipende da
come si è vissuto. Nella Cristianità il fatto di credere a una vita oltre la
morte che trascende l’immanente mitiga la trepidazione e la paura del passaggio...
La legge del contrappasso non può essere razionalizzata sino in fondo perché
non si inserisce in essa la dimensione variabile e camaleontica del mistero, E
mistero significa incomprensione, segreto, abisso che possiamo rivivere come
meno tragico in alcune religioni che in altre. In una prospettiva
essenzialmente psicologica qual è la mia, direi che difficilmente ci sono
differenze radicali e inconciliabili nelle diverse culture quando
soggettivamente si guarda alla voragine della morte. All’interno di ogni
cultura ed esperienza religiosa, cristiana o non, il modo con cui ciascuno
rivive l’ombra, il mistero della morte è carico di connotazioni psicologiche
interiori che trascendono le strutture portanti di chiunque faccia parte di una
certa cultura e anche di una certa orientazione religiosa.
Oltre alle componenti culturali e religiose, quindi, ce n’è una psicologica
che dipende dal vissuto personale?
Mi sembra di poter dire questo. Che poi Tiziano Terzani nelle ultime sequenze
della sua vita ritenga che la morte abbia una possibilità di accettazione più
serena, meno conflittuale quando la si riviva in un’ottica panteistica, anche
questa è un’interpretazione soggettiva. La sua prospettiva psicologica talmente
intensa sulla soglia della morte può aver cambiato, bruciato (se leggiamo i
suoi ultimi le sue antecedenti esperienze e percezioni della morte. Qualcosa di
non così tragico qual è soprattutto la morte nella nostra cultura occidentale.
Un doppio evento biologico e psicologico?
Sì, certo. La dimensione psicologica diventa anche la cifra ermeneutica della
dimensione biologica. Anche se in una prospettiva biologistica pura nulla
sopravvive alla vita e la morte è la conclusione implacabile di ogni evento e
la cancellazione di ogni speranza.
C’è chi, come il filosofo Heidegger, intende l’essere in preparazione della
morte, un bilancio di vita.
La struttura portante della vita è per Heidegger l’angoscia, che nasce dal
vive- re la vita soltanto come soglia della morte. Perciò la morte è
l’orizzonte di senso per la vita cui tutti partecipiamo al di là delle
finzioni, delle illusioni, delle speranze che mascherano questo disperato
destino che
in ciascuno di noi. La rivoluzione copernicana compiuta da Heidegger nel
contesto della filosofia è stata far abbandonare ogni costruzione teorica,
ideologica, per tentare di cogliere invece i profondi, perenni vissuti
esistenziali e antropologici che, ai di là di ogni cultura e religione, stanno
fondamento dell’esistenza.
Le diverse culture non hanno quindi alcun ruolo?
Anche se in maniera diversa tentano di sfumare, attenuare questo esistere per
la morte, questo orizzonte di angoscia con cui tutti dobbiamo confrontarci.
Sovente la percezione, e la stessa esistenza, della morte viene dimenticata,
cancellata, negata, messa nel cassetto. Non ci si confronta con la reale natura
dell’uomo, e si fa della morte qualcosa di impersonale. Quando, come dicono i
versi di Rilke che fa suo il pensiero di Heidegger, ciascuno di noi dovrebbe
avere la propria morte e prepararsi al passaggio tra vita e morte nel senso più
creativo, più autonomo, più personale. Qualcosa su cui riflettere. Invece la si
vive come un evento anonimo, astratto, impersonale.
Salvo qualche eccezione?
Il medico oggi, quali che siano le sue tentazioni di rimozione, non può
trasformarsi in spettatore disinteressato, benché possa accadere anche questo,
come Terzani a volte dice. Il significato del mistero della morte e di dolore
sono per il medico una realtà incancellabile. Succede però che finisca per
trasformare il paziente in un oggetto, in un corpo da sottoporre solo a una
vertiginosa sequenza di esami, di tecnologie esasperate che rompono qualunque
contatto corporeo con il paziente. Non si palpa più un fegato, ma nemmeno si
ascoltano le parole. Si affida una tragedia di morte all’assistenza “tecnica”
di un esperto, nel solco di una radicale spersonalizzazione. Ma a chi soffre, a
chi deve colmare la voragine della solitudine le parole vanno integrate o
sostituite con il linguaggio del corpo, da gesti come una carezza al volto e
una mano stretta.
Se nel contesto sociale la morte Individuale è cancellata, non lo è quella
pubblica...
Vero. La morte viene vissuta anche come spettacolo. Con questa tendenza
Catastrofica di accompagnare la bara in chiesa con applausi. Una metamorfosi
estrema in cui si corre il rischio di perdere il senso profondo di quanto è
accaduto. L’ultima trincea di questa vita dominata dal chiasso è il silenzio in
cui cogliere davvero il dolore dell’altro, di chi precipita nell’abisso della
solitudine per la morte della persona cara.
Come si accompagna alla soglia del morire? C’è un modo giusto per farlo?
È una capacità inespressa, inesprimibile, un’attitudine, una vocazione di
rivivere il dolore dell’altro come se fosse il proprio. Non esistono tecniche
psicologiche che possano dare questa capacità. L’immedesimazione nel dolore
dell’altro significa anche il coraggio di guardare dentro di sé e ritrovare in
noi parole e gesti che siano terapeutici, perché terapia in greco vuoi dire
“essere a servizio di qualcuno”. Non esistono gerarchie di consigli dinanzi a
ogni esperienza di morte, Qualunque gesto porta un po’ di pace e comprensione a
chi sta male. La tecnica è qualcosa che si aggiunge, ma di per sé non basta a
incrinare anche solo per un attimo la muraglia del dolore che implica perdere
la dimensione del futuro e della speranza.
Padre David Maria Turoido, che la fede aveva aiutato ad affrontare con
ardore il suo male, “quel drago insediato nel centro del ventre”, chiese al
medico chiamato al suo capezzale di non essere lasciato solo. “Io non ho mani
che mi accarezzano” recita una sua poesia.
Le mani che cercano altre mani per scambiare più che un contatto sono le sole
zattere su cui imbarcarsi. I gesti significano in qualche modo il morire
insieme: chi vive aiuta chi muore. Il morire e la morte sono due esperienze
profondamente diverse. Possiamo rimuovere l’esperienza della morte, ma non
quella del morire, che è ancora vivere. Chi muore sta vivendo, seppure gli
ultimi scampoli della sua vita. E solo alleandosi a quel vivere, sulla soglia
del morire, che il morire diventa meno straziante e doloroso. Solo la morte
pone fine alla morte.
La fede può essere una risorsa e aiutare ad annichilire la paura di morire?
Il cardinale Carlo Maria Martini lo ha espresso più volte: la fede è sempre un
incontro con il mistero, con fasci di luci ma anche di ombra. La morte è un
mistero, ma lo è anche la fede. Non si può razionalizzare la morte, riducendone
il mistero e dimenticando il dramma psicologico di chi si avvicina alla sua
soglia. Le esperienze possibili sono diverse. Nei Dialoghi delle carmelitane lo
scrittore francese Georges Bemanos ci descrive la paura senza fine della morte
che divora la madre superiora, immersa per anni nella preghiera e in
riflessioni sulla morte, e la serenità invece con cui si avvia alla
ghigliottina l’altra consorella che mai aveva pensato alla morte. Quante
contraddizioni in noi, quante dimensioni psicologiche stratificate. Anche
emblemi così solari come quelli della fede possono dileguarsi.
Il cancro, questo intruso che entra in noi, suscita particolari paure?
Tumore è meno crudele e aspro di cancro. Le parole stimolano il nostro
immaginario. L’effetto psicologico di questa malattia, di questa presenza
estranea che cambia, si trasforma dentro di noi, ha una risonanza emozionale
altissima in chi si ammala e suscita una ipervigilanza non solo nei malato, ma
anche nei familiari con una grande condivisione psicologica. Una mobilitazione
di tutte le risorse possibili che possano contribuire alla cura, cosa che in
Terzani è avvenuto quasi in forme parossistiche, dalle medicine
tecnologicamente avanzate alle orientali, alle omeopatiche. Non avviene così
per chi è colpito da una grave patologia mentale, in cui l’accoglienza non è
così ampia e razionale. Si teme la malattia psichica grave, ritenuta
incurabile, sì ha paura di essere contagiati.
Esiste anche una morte psicologica, emblematica quella che colpisce il
malato di Alzheimer peggio della morte biologica?
Diffonde disagio a chi sta attorno. Istantaneamente si fanno distanti tutti,
familiari, medici, assistenti. Ne nasce una situazione di disperazione, ma
anche di rigetto, di perdita, di sconfitta, e di morte. Un’indifferenza
ghiacciata. Difficile che il malato, specie in fase iniziale, non colga questi
atteggiamenti mutati, questa paura. Che è poi timore di rivivere la malattia
cui sto assistendo. Quindi solo accrescendo la distanza psicologica, ma anche
corporea, dal malato si mitiga la paura. La morte psichica è considerata più
pericolosa, più imprevedibile della morte biologica sulla quale ci si illude di
poter influire, se non altro dilatandola.