centro studi asia

Sei sutra sul dialogo tra le religioni

(Traduzione italiana di Carlo Saviani)

di James W. Heisig

Sei sūtra sul dialogo tra le religioni*

Nel 2000 il Nanzan Institute for Religion and Culture celebrò il 25° anniversario della sua fondazione1. Per l'occasione, chiedemmo delle relazioni commemorative ai membri attuali e precedenti dello staff, da raccogliere in un volume speciale [pubblicato nello stesso anno con il titolo Shūkyō to shūkyō no “aida” (Tra religione e religione)]. Quello che segue fu il mio contributo.

Da tempo mi era apparso che la sempre più ricca biblioteca di materiali teologici sulla natura, le regole e la spiritualità del dialogo interreligioso fosse più un danno all'effettiva attività del dialogo che un aiuto. Per quanto non mi piacesse l'idea di aggiungere un ennesimo saggio su ciò che è e significa il dialogo, sentii che era venuto il momento di mettere da parte le mie prevenzioni e di chiarire la mia opinione in materia.

In particolare, c'erano due fondamentali punti che mi sembravano mancare nella letteratura che conoscevo. Primo: nell'esporre le motivazioni che spingono ad entrare nel dialogo tra le fedi, per quanto si possano citare testi sacri, documenti e i detti di fondatori, santi e saggi della propria tradizione, l'atteggiamento essenziale del dialogo appartiene in realtà al sano senso comune, che rende oggi possibile qualsiasi riflessione sulla realtà della religione. Secondo: il dialogo interreligioso non consiste nel contrapporre gli uni agli altri i particolari simboli della fede per comparare i loro relativi meriti e demeriti, ma in una reciproca conversione.

Su questo sfondo, tentai di districare sei fili dal complesso di motivazioni, sentimenti e idee che avevano animato il lavoro del Nanzan Institute e di altri simili.


 
L’importanza del dialogo tra le religioni non deve essere provata qui. Per coloro che vi sono impegnati, la prova è nell’esperienza. Per coloro che hanno bisogno di essere convinti con argomenti razionali, vi è un’intera letteratura sull’argomento, disponibile in una varietà di lingue. Quanto a coloro la cui esperienza o le cui convinzioni li hanno condotti a pensare il contrario, nessuna delle cose che dirò potrà persuaderli a cambiare la loro opinione in materia. Il mio interesse qui è di un altro genere.

Ciò detto, per me non è sempre ovvio che difensori e detrattori del dialogo stiano parlando della stessa cosa. Ma non me ne lamento; che le cose stiano così, è della natura stessa del dialogo. Non c’è alcun recinto nel quale qualcuno possa radunare una certa classe di idee e di attività per marchiarle con il concetto di dialogo. Né vi è alcuna altura privilegiata da cui si possa gettare lo sguardo sulle interazioni tra le religioni e dispensare definizioni o norme generali. Tutto ciò che si dice sul dialogo – anche nelle sue forme più razionali – lo si deve dire nel bel mezzo della mischia. Non è un'attività professionale certificabile, magari esercitata da un apposito comitato, della quale si debba rispondere ad una qualche superiore autorità. È un’avventura delle idee.

L’esperienza insegna presto a ciascuno che, quando differenti cammini religiosi si incrociano nei convegni dei loro rispettivi credenti, raramente ciò che accade appaga le aspettative e le previsioni dei partecipanti. I risultati sono molto più spesso casuali e frammentari che sistematici. L’impatto maggiore è più spesso sentito in un'interessante torsione di un’idea familiare, in un fatto trascurato, in un sentimento imprevisto, che in un consenso deliberato o in una chiarificazione delle differenze. Questo non significa che il forum al quale partecipano gli appartenenti alle diverse tradizioni religiose per discutere materie di comune interesse sia poco più che un’amichevole chiacchierata tra vicini di staccionata. Significa soltanto che nei congressi di religioni diverse i frutti più importanti, persino del più rigoroso e disciplinato dei convegni, tendono a germogliare nello spazio tra lo scontro e il clamore delle idee e degli strumenti intellettuali, per poi sbocciare e maturare in tempi e luoghi diversi, spesso senza alcun segno evidente della loro origine.

Questo va bene per particolari dialoghi, ma dovendo parlare dell’intera impresa del dialogo e definire le sue proprietà o improprietà, ciò che si desidera maggiormente è una qualche definizione di termini. Se davvero è in atto un qualche mutamento di prospettiva e se davvero esso è parte di un più ampio mutamento della coscienza religiosa, allora dobbiamo essere capaci di soffermarci di tanto in tanto per verificare che non sia un'illusione o un'autosuggestione. Non farlo significherebbe lasciare se stessi in balia di propositi nascosti o disporsi a conformarsi ingenuamente ad idee affascinanti o ad una semplice sostituzione di certezze.

Abbiamo quindi due questioni intrecciate: in primo luogo, abbiamo bisogno di parametri per delimitare ciò che intendiamo per dialogo interreligioso; abbiamo poi bisogno di renderci conto di che cosa renda autentico un dialogo e di che cosa lo renda invece finto.

In merito alla prima questione, confido che il lettore non pensi che sia immodesto da parte mia cogliere l’occasione del 25° anniversario della fondazione del Nanzan Institute for Religion and Culture per caratterizzare il dialogo interreligioso almeno come ciò a cui il Nanzan Institute si è dedicato. Si potrebbe anche dire, forse con maggiore umiltà e correndo minori rischi di dare qualcosa per scontato, che il ruolo che noi abbiamo giocato nel dialogo è una delle facce di questo poliedrico e sempre più ricco fenomeno.

Quello che per me è il punto centrale, tuttavia, richiede un’affermazione più audace della supposizione che la nostra esperienza [del Nanzan Institute] conti qualcosa nella più ampia storia del dialogo. Sono ovviamente troppo coinvolto nel fenomeno per reclamare una sia pur minima obiettività a questo riguardo; ma, in quanto il Nanzan Institute fu istituito come centro per il dialogo interreligioso e si è comportato per un quarto di secolo con questo proposito e in quanto questa condotta coincide con quello che è forse il più durevole e continuativo sforzo nella storia umana di mettere le religioni in dialogo, appare corretto riconoscere alla nostra storia una parte indispensabile nel dialogo stesso.

In quest’avventura il nostro è stato un contributo intellettuale. Non vedo alcuna ragione per eludere le critiche di chi afferma che le religioni siano molto più delle loro dottrine o della loro autocomprensione razionale e che sia limitato un dialogo centrato sui testi e le idee e troppo vincolato ai princìpi del discorso razionale. In realtà, l’ampia rete di attività interreligiose cui abbiamo preso parte in Giappone, in Asia e in tutto il mondo, ha reso chiaro che il nostro è solo un disegno ordito in un arazzo molto più vasto. Ma il dialogo intellettuale ha costituito la nostra parte nel racconto ed io preferisco parlare di ciò che ho visto e ascoltato, sebbene ciò condizioni alcune delle generalizzazioni che qui seguiranno.

Un dialogo interreligioso in un forum intellettuale è un dialogo nel senso più letterale del termine: persone di un credo religioso che discutono con quelle di un altro. Sebbene il contesto sia definito dalle esigenze di un dibattito razionale, il dialogo è motivato da un desiderio che è tutto fuorché puramente razionale; ossia è il desiderio di capire meglio la dimensione religiosa dell’essere umano in tutte le sue diversificazioni. Il punto focale delle discussioni è variabile, e così pure la struttura; ma la pura e semplice intenzione di aiutarsi l’un l’altro a pensare più chiaramente e con più cognizione a qualcosa che appartiene a tutti noi come parte della nostra comune natura, rimane il costante, sebbene in certa misura sfuggente, ideale. Ciò che distingue il dialogo interreligioso da uno studio accademico sulla religione o da un mero ampliarsi del proprio orizzonte di comprensione, è confidare nel fatto che nella comprensione religiosa stessa agisca qualcosa di più che l’esercizio della ragione su una certa classe di fenomeni: qualcosa che ci cattura nella sua indicibilità più di quanto non riusciamo a catturarlo con le nostre parole. Lo spirito del dialogo è avvolto in qualcosa che, ignotum per ignotius, potremmo chiamare "mistero". Questa, almeno, è la posizione dalla quale ho concepito le riflessioni che seguiranno.

Nello stesso tempo, ammetto tranquillamente che il tipo di dialogo interreligioso di cui abbiamo goduto al Nanzan Institute si qualifichi oggi come un bene di lusso, se confrontato con l'attuale scenario del mondo. Per quanto la civiltà abbia fatto progressi negli strumenti di lavoro, comunicazione e divertimento, ci sono oggi tutti i segnali di un deterioramento di queste fondamentali attività culturali; tanto che sembra esserci una relazione inversamente proporzionale tra la raffinatezza dei nostri strumenti e la distribuzione della ricchezza che dà accesso ad essi, e che la religione organizzata sembra generalmente aver fatto la pace con le contraddizioni nei confronti dei propri princìpi. Entrare nel forum di un dialogo aperto, non inibito da una diretta responsabilità nei confronti dell’ordine mondiale, è un privilegio; il cui esercizio è giustificato solo da ciò che accade nella storia che circonda il dialogo. Anche questo ho in mente in ciò che dirò in seguito.

Riguardo alla seconda questione, ossia quella di accertare l'autenticità del dialogo religioso intellettuale, vorrei offrire un certo numero di proposizioni sotto forma di fili da tessere nel più ampio arazzo dell’incontro tra religioni. Presi singolarmente, questi fili – o per usare un termine sanscrito, questi sūtra – sono molto sottili e facilmente si spezzano sotto la trazione della spola. Bisogna intrecciarli insieme per poterli poi lavorare al telaio. Con ciò non intendo in alcun modo offrire una metodologia sistematica, definire un insieme di norme valide per ogni dialogo intellettuale tra religioni. Vorrei solo tracciare una serie di riflessioni su cosa renda autentico un dialogo; riflessioni formulate oltretutto dal punto di vista di un partecipante cristiano.

Altri, nella comunità di studiosi che hanno costituito il Nanzan Institute, avrebbero senza dubbio espresso le cose diversamente, ponendo l’accento su altri punti. Potrebbero anche trovarsi in disaccordo con qualcuna di queste affermazioni. Siamo stati un equipaggio troppo eterogeneo per pretendere qualcosa di più di un comune orientamento. Gli errori e le incomprensioni che ci hanno accompagnato lungo la strada appartengono anch’essi a questa storia, ma qui li lascerò da parte. La mia idea è di andare tra le linee della storia dell’Istituto alla ricerca dello spirito di dialogo che ci siamo riproposti di servire.

 

 

Sūtra 1. Lo spirito del dialogo interreligioso non ha bisogno di essere nato dalla tradizione per potervi rinascere.
Quando il cristianesimo incontra oggi altre religioni, lo fa con un chiaro vantaggio nella letteratura sul dialogo. In nessun’altra religione del mondo c’è qualcosa che possa paragonarsi alla mole di riflessioni teologiche sull’argomento quali troviamo sparse in tutto il mondo cristiano. Ciò nonostante, è necessario smentire l’affermazione che la prima ispirazione al dialogo con le religioni del Giappone – shintō, buddhismo, religioni popolari e nuovi movimenti religiosi – o anche di altri paesi, sia nata dalle Scritture o dal magistero della mia tradizione. (Né trovo prove che qualcuno dei nostri interlocutori possa fare questa stessa affermazione in favore della propria tradizione.) Se mai, i pionieri del dialogo hanno dovuto combattere ogni volta con uno sbarramento di brani scritturali e credenze tradizionali che ne hanno censurato l'operato.

Nel caso del Nanzan Institute, l’aria era già stata rischiarata dal tempo in cui la vanga frantumava il terreno per costruirvi l’edificio. Questo rovescio della sorte che ha messo il dialogo in primo piano nella riflessione teologica e ha … il peso della tradizione, dà frequentemente l’impressione che il dialogo sia un’avventura peculiarmente cristiana. I fatti inducono ad una maggiore umiltà.

Il cristianesimo non si è disposto di propria iniziativa al dialogo con le altre grandi religioni del mondo. Pochi individui lungimiranti videro avviarsi un mutamento nella coscienza secolare riguardo alla promessa di una differenziazione religiosa, riconobbero nel dialogo qualcosa di spiritualmente importante, vi si coinvolsero contro ogni resistenza e perseverarono finché non fosse giunto il tempo in cui anche l’istituzione religiosa cominciasse a dar credito allo spirito di dialogo in nome della sua stessa perenne eredità. Quando il Concilio Vaticano Secondo si pronunciò sull’apertura alle religioni non cristiane e alla libertà religiosa – tutte cose piuttosto blande rispetto agli standard attuali – non stava dando inizio ad un ripensamento, ne stava piuttosto prendendo atto. Senza dubbio questo riconoscimento segnò uno spartiacque nella storia del dialogo, in favore di coloro che avevano sgombrato la strada ai cristiani per un riconoscimento della verità di altri cammini religiosi.

Se il cristianesimo si è dovuto mettere al passo del saeculum nell'accettare la sfida della diversità religiosa, esso si ritrova ora all'avanguardia in un gran numero di cristiani. Non è l'assenza di persecuzioni la prova maggiore del fatto che nel cristianesimo lo spirito di dialogo sia rinato. È stata piuttosto la reinterpretazione della tradizione religiosa a spiegare che l'apertura alle altre fedi è una conseguenza naturale della nostra fede. Figure trascurate del passato, le cui idee sul dialogo erano state marginalizzate, sono adesso riportate con orgoglio al centro dell'attenzione. Non c'è alcuna ragione di accusare i teologi di revisionismo storico; questo è il modo in cui le tradizioni religiose hanno sempre teso ad operare.

Molto più importante per il cristianesimo, e invero per qualunque altra religione, non è tanto il fatto che il dialogo non sia nato direttamente dalla propria tradizione, quanto il fatto che vi sia rinato, che il peso di una tradizione antica è ora posto dietro agli sforzi per realizzare un'idea così importante per l'intera comunità umana, anziché essere messo di fronte a questi stessi sforzi come una barriera. E nella misura in cui ciò potrà condurre altri cammini religiosi ad emulare la ricerca di questo stesso spirito nelle proprie tradizioni, il valore di questa rinascita potrà solo essere esaltato.

 

 

Sūtra 2.  Il dialogo è preminentemente un'impresa minoritaria che si erge libera dagli obblighi della religione istituzionale.
Plaudire all'incoraggiamento che l'istituzione religiosa dà al dialogo in generale, non equivale a dire che la presenza delle istituzioni religiose sia essenziale al dialogo a tutti i suoi livelli. È chiaramente questo il caso del dialogo intellettuale, il nostro interesse centrale. Si sta nel forum del dialogo professando una particolare fede e, in questo senso, in rappresentanza di quella fede, per ampia o limitata che sia la portata delle proprie conoscenze; ma ciò non vuol dire che si rappresentino le istanze istituzionali di quella fede. L'attività di dialogo fiorisce al meglio quando la si tiene lontana dalle esigenze delle istituzioni ufficiali.

Detto in altri termini, rappresentare interessi e politiche istituzionali tende ad inibire la libertà di pensiero, la quale è l'anima del dialogo intellettuale. Certo, non si lascia da parte la propria fede, ma vi si lascia il grosso della religione, inclusa la dimensione degli obblighi istituzionali.
Anche quando gli obblighi concreti relativi all'istituzione religiosa vengono lasciati fuori del dialogo, l'idea della religione istituzionale non può mai essere tenuta lontana da un colloquio sulla religione. Anche alle sue altezze dottrinali più eteree, un discorso religioso rimane conficcato nella storia, molto più attraverso le sue visibili strutture politiche ed economiche che non attraverso la consapevolezza dei singoli credenti. Disquisizioni e storia sono sempre correlate. Tuttavia, nello stesso modo in cui l'esperienza religiosa privata, con tutto il suo valore, non può essere oggetto di discussione razionale se non astraendola dal soggetto che la esperisce, così anche l'interesse a conservare le strutture religiose deve essere elevato al livello del suo ideale, se queste devono essere minimamente discusse. Dal punto di vista della religione istituzionale, allora, il dialogo è sempre un'impresa minoritaria, incompatibile con le istanze di una tradizione religiosa.

 

 

Sūtra 3. Lo scopo del dialogo consiste nel suo esser senza scopo.
Nel mondo cristiano, commissioni e corsi sul dialogo hanno aiutato a trovare per questa impresa un posto nell'establishment accademico ed ecclesiastico diffuso nel mondo. Il fenomeno è particolarmente riscontrabile nel cristianesimo, ma per fortuna non solo in esso. Per quanto significativo sia questo sviluppo, esso non rimuove la convinzione che il dialogo stesso, specialmente quello intellettuale, debba essere supportato da progetti esterni al dialogo stesso, siano o meno collegati all'establishment religioso. E la tentazione di agire in questo modo è enorme.

Si pensa, ad esempio, ad iniziative per collegare il dialogo tra religioni a qualche forma di "etica globale". L'intenzione di fare da stimolo tra i credenti delle religioni mondiali che sono impegnati in una guerra, come un importante passo verso la pace mondiale, è abbastanza lodevole da parte sua, come lo è la collaborazione tra religioni per contrastare sistematiche violazioni dei diritti umani o strutturali ingiustizie. Questo piano intende il dialogo come una forma di pressione tecnico-operativa, che si differenzia dal dialogo tra nazioni o aziende in termini di motivazioni ma non di strutture. Ma ciò non implica che tutto il dialogo, per essere valido, debba dotarsi di un piano. Al contrario, d'accordo con il mio predecessore Jan Van Bragt, penso che uno degli scopi che meglio definiscono il dialogo intellettuale sia quello di essere "senza scopo"2.

L'insistenza su una forma di forum del dialogo libera da scopi secondari non smentisce in alcun modo quegli scopi. Afferma solo che la chiarezza di pensiero è  favorita anche da un contesto che si allontani dalle pressanti preoccupazioni del presente. Non c'è dubbio che questo ritrarsi sia impotente nel concreto, mancando di un orientamento nei confronti della storia. Dire che tali cose non sono di sua immediata pertinenza non vuol dire che non siano questioni che il dialogo possa trattare, magari in qualche altro forum. In altre parole, una dichiarazione di assenza di scopo può essere sostenuta solo se si vede il forum del dialogo come una deliberata, ma provvisoria, ascesi. Il dialogo intellettuale non è uno stato permanente di identità religiosa o anche di riflessione religiosa. Il dialogo non mira alla pienezza della fede religiosa, lontano dalla pratica religiosa. Né tanto meno è un "ingrediente" permanente dell’ordinaria autocomprensione religiosa. E il forum del dialogo è ancillare nei confronti delle più ampie questioni dell'identità storica e della moralità, solo perché la sua attività non è ancillare ad alcunché. Come un gioco che perde il suo carattere di gioco una volta che sia asservito ad un qualche scopo esterno, il dialogo fiorisce nel suo esser senza scopo.

Per la stessa ragione, è un errore vedere l’impegno nel dialogo come un lavoro di specialisti. Il dialogo ha successo più come risultato di un’esperienza che come risultato di perizia. Il tentativo di porre specifiche "regole fondamentali" per discorsi intelligenti tra credenti di fedi diverse, genera inevitabilmente un clero di esperti, atto a monitorare i risultati di tali incontri e stabilirne il successo o il fallimento. Per evitare tutto questo, è necessario intendere il dialogo come un bene in sé, la cui causa è non servire alcun'altra causa.

 

 

Sūtra 4. Il dialogo è selettivo rispetto alla tradizione e può anche esigere che si faccia totalmente a meno della tradizione.
Quando una tradizione dottrinale ne incontra un’altra, non vi è alcun obbligo di rappresentare l’interezza della tradizione. Ciò che potrebbe compromettere la propria integrità in una discussione di teologia o di storia comparata delle idee – dove l’intero quadro, o almeno una visione prospettica di esso, è sempre potenzialmente rilevante – non rappresenta lo stesso pericolo nel dialogo interreligioso. La questione di Dio, ad esempio, non impone che il cristiano vi coinvolga la dottrina della trinità; quando si parla di salvezza, può non essere necessario esporre teorie sull’anima o sul giudizio finale. Nel delineare una questione per una discussione comune, il numero di dettagli lasciati in penombra sarà molto più ampio se un cristiano parla con uno shintoista, un buddhista o un taoista, che con altri cristiani, o viceversa. In realtà, niente è più soffocante in un dialogo che tentare di seppellire di dettagli la discussione, per un senso di lealtà alla tradizione. Fintanto che rimane primaria l’attenzione alla chiarezza di pensiero circa la dimensione religiosa dell’essere umano, la chiarificazione della tradizione rimane secondaria. Non ho alcun dubbio che quest’ultima sia importante e che possa anche trarre beneficio da una discussione interreligiosa. Intendo solo suggerire che il dialogo è servito meglio là dove i partecipanti sono sollevati dall’obbligo di attenersi alla tradizione nella sua interezza. Questa ascesi è ben nota a coloro che si uniscono ad altri religiosi per scopi sociali. Credo che possa trovare uno spazio anche nel dialogo intellettuale.

Come corollario, va fatta menzione del problema del fondamentalismo. Non credo che il fondamentalismo sia una posizione razionale accettabile, ma neanche che l’unica possibilità sia quella di contrastarlo al suo stesso livello di intolleranza. Dove sono in discussione questioni teologiche e filosofiche, il fondamentalismo non ha alcuno spazio. Ma nel dialogo tra credenti l’assenza di richiami alle differenti dottrine, rifiutate in linea di principio dalla posizione fondamentalista, non segna la fine del dialogo. Costituisce piuttosto il test decisivo della sua vitalità.

Sulla base del puro e semplice punto d'accordo secondo il quale ci sarebbe in ognuno di noi un naturale impulso a conoscere sempre di più il mistero che avvolge la vita, e la fede e la pratica religiosa sarebbero in un certo senso un tentativo di rispondere a quest'impulso, dovrebbe essere possibile tollerare un allontanamento da asserzioni dottrinali specifiche della fede di ciascuno, in modo da ampliare il terreno comune della comprensione, sempre che le condizioni qui discusse negli altri sūtra siano soddisfatte.

Sebbene noi tendiamo ad associare il fondamentalismo ad una posizione sistematica e globale, è invece probabile che lo incontreremo come una dimensione di tutte le tradizioni articolate. Anche in questo caso l’accento nel dialogo deve cadere sul recupero dall’interno del fondamentalismo di una basilare religiosità umana, come unica possibile guarigione dalla ferita dell’intolleranza, e non sulla riaffermazione a tutti i costi della propria lealtà dottrinale.

 

 

Sūtra 5. Il dialogo è un’attività religiosa, che però non conduce ad una conversione religiosa né ad una convergenza religiosa.
Da una parte, i critici del dialogo intellettuale, con le sue preferenze per le regole del discorso logico anziché per il pieno dispiegamento della tradizione e con la sua distanza dalle istituzioni, lamentano spesso che questo dialogo sia un tentativo mascherato di fondere una con l’altra le tradizioni religiose esistenti operando sui loro punti di contatto. Dall’altra, i critici della predominanza della presenza cristiana nel dialogo lamentano che ci sia un tentativo mascherato di convertire le altre religioni alla dottrina cristiana, o quantomeno al modo cristiano di intendere la dottrina.

Il dialogo intellettuale, come ho già detto, è sempre qualcosa di più di un forum per dibattiti intellettuali o di uno scambio di informazioni tra esperti riconosciuti. Esso non è meramente un dialogo sulle religioni, alla maniera della filosofia, della psicologia, della sociologia o della storia delle religioni; è invece esso stesso un atto religioso – in se stesso un esercizio di fede. Questo non implica necessariamente, tuttavia, un mutamento di appartenenza o qualunque altro tentativo di alterare la condizione istituzionale dei singoli individui. L’esperienza del dialogo può favorire, ovviamente, la conversione da una religione ad un’altra o anche solo una conversione che allontani da una religione. Ma queste conseguenze non riguardano il dialogo in se stesso. Esse hanno luogo fuori del forum del dialogo, nel più ampio mondo delle pratiche e delle tradizioni religiose, dove non dominano le severe condizioni del dialogo.

Allo stesso tempo, bisogna ammettere che all’interno dei parametri del dialogo le differenze di fede che separano un cammino religioso dall’altro sono spesso ignorate. In termini di interazione tra le diverse chiese cristiane impegnate con una religione come il buddhismo, è vero che prende il sopravvento un clima di spontaneo ecumenismo, che mette da parte preoccupazioni secondarie che devierebbero l'intera funzione di un convegno tra le due religioni. Sebbene il settarismo buddhista sia di un genere molto diverso da quello che si ritrova nel mondo cristiano e sebbene il progresso di un movimento ecumenico intra-buddhista viva ancora la propria infanzia, questo settarismo non è sempre rilevante ed è spesso necessario che sia ignorato in nome della chiarificazione di questa o quella questione in discussione. In linea di principio, non c’è alcuna ragione che questa abitudine, abbastanza comune nel dialogo intellettuale, debba trasferirsi nel più ampio campo delle teorie o delle pratiche religiose, ma neppure è impossibile che ciò che si è visto nel dialogo possa essere effettivamente trasferito.

Ripeto, le condizioni del dialogo non generano né inibiscono le successive decisioni di cancellare divisioni settarie ormai superate oppure di fondere differenti religioni in qualche nuova forma di religione. Per essere prese, tali decisioni richiedono molto più che gli strumenti del dialogo intellettuale, e il deliberato distanziarsi da tale decisioni nel dialogo sottolinea solo questo fatto.

A questo riguardo, è bene esporre qui la critica secondo la quale il cristianesimo, in funzione del suo monoteismo, tenda a promuovere un esclusivismo ed un conflitto tra le religioni che è del tutto estraneo al tradizionale inclusivismo ed all’approccio armonioso delle religioni orientali non monoteistiche. In Giappone questo argomento è impiegato come supporto quando si afferma che il diffondersi del cristianesimo, con il suo assunto che la religione richieda che ogni individuo attesti la sua appartenenza ad una sola religione e la rifiuti a qualsiasi altra, sia responsabile della politica di separare shintō e buddhismo, inaugurata nei primi anni dell’èra Meiji. Inoltre, questo argomento supporta chi afferma che entrare nel dialogo interreligioso con il cristianesimo implica una certa disparità, data l'inveterata tendenza del cristianesimo a far sorgere divisioni in una forma di religiosità naturalmente pluralistica3.

Quest'argomento presenta molti problemi, che nel dialogo affiorano tutti. Per cominciare, il cristianesimo contemporaneo è fortemente diviso sulla questione del pluralismo, e coloro che sono più impegnati nel dialogo interreligioso portano gli argomenti più forti in favore del pluralismo. Lungi dal promuovere una forma criptica di esclusivismo, il cristianesimo mostra nel dialogo segni di guarigione dall’esclusivismo da cui a lungo è stato affetto (o forse, potremmo anche dire, sta recuperando una tolleranza che aveva troppo a lungo messo da parte). Inoltre, la netta separazione di cristianesimo e religioni orientali rischia, in modo scoperto o coperto, di commettere il fondamentale errore contro il quale Harnack metteva in guardia: paragonare la teoria di una religione con la pratica di un altra4. Il pluralismo che si dice possa essere incrinato dal cristianesimo, esiste nella coscienza popolare a livello religioso molto più di quanto non esista nella dottrina delle religioni istituzionali, per le quali l’inclusivismo è spesso poco più di un espediente politico o economico.

Allo stesso tempo, il monoteismo puro che si dice incoraggi l’esclusivismo raramente esiste nell’immaginario popolare cristiano, la cui religiosità è nella pratica molto più vicina fenomenologicamente ad una certa qual forma di politeismo che non all’alta teologia. Il paragone è veramente fuori luogo fin dall’inizio e gli sforzi del cristianesimo per aprire la tradizione al dialogo non sono molto serviti da questo tipo di fraintendimenti.

Inoltre, fin tanto che il forum di discussione con le altre religioni serve la teologia cristiana – o qualsiasi metodo di qualsiasi altra religione per una riflessione dottrinale in questa materia – come un’opportunità per propagare il suo modello di autocomprensione come universale, esso tradisce lo spirito di dialogo. Solo in un'elevata consapevolezza di questa tendenza alla parzialità, potranno liberamente interagire differenti metodi di autocomprensione, di volta in volta entrando in conflitto o prendendosi in prestito, persuadendo ma sempre aperti ad essere persuasi. Questa è l’unica forma di conversione transitiva nella quale il dialogo può essere fedele a se stesso.

 

 

Sūtra 6. In cuor proprio, il cristianesimo è naturalmente buddhista, il buddhismo è naturalmente cristiano.
Il famoso detto di Tertulliano, "anima naturaliter christiana", è stato tradizionalmente interpretato come "l’anima è naturalmente cristiana", per cui non accettare la fede cristiana sarebbe ribellarsi a ciò che è nella nostra natura. Il latino, ed il contesto originale della frase, tuttavia, suggeriscono una lettura radicalmente differente, molto più vicina allo spirito del dialogo interreligioso. Nella ricerca di un punto di contatto tra credenti e non credenti, che mancano di un comune insegnamento e di comuni Scritture, Tertulliano fa appello al testimonium animae: nei più profondi recessi del cuore umano, l’idea centrale ed i simboli del cristianesimo si possono ritrovare ad uno stato naturale. In altre parole, “il cristianesimo è naturale per l’anima”. Il cristianesimo non è semplicemente un insieme di credenze imposto dall’esterno da forze storiche collettive e non è accolto disobbedendo ai desideri della nostra natura umana. È invece, nel suo fulcro, un’espressione della nostra natura5.

La conseguenza di questa posizione è che il cristianesimo è qualcosa di naturale anche per l’anima di coloro che professano altre religioni. Ai cristiani che hanno esperienza di dialogo con il buddhismo in Giappone questo risulta chiaramente evidente. L’altra faccia della medaglia è che il cristianesimo non è la sola religione che possa fare questa affermazione. Come anche il dialogo testimonia, il sentiero buddhista è naturale non solo per i buddhisti ma anche per un cristiano. Il buddhismo non invade il terreno del cristiano come uno straniero nemico; entra invece da amico in una casa che gli è stata preparata dalla fede cristiana. Proprio il fatto di essere affidato alla fede cristiana, costituisce già un'affinità con il buddhismo nella misura in cui i due sentieri condividono tanti valori fondamentali. Già da molto tempo conosciamo la situazione inversa: il buddhista profondamente religioso è già preparato ad apprezzare ciò che il cristianesimo ha da offrirgli. Più a lungo buddhisti e cristiani discutono gli uni con gli altri, più forte cresce in entrambi il senso di una fondamentale quanto inaspettata familiarità. Se non fosse stato così, il dialogo sarebbe già collassato da tempo o almeno si sarebbe rimodellato in un semplice scambio intellettuale.

Dire che buddhismo e cristianesimo sono naturali per l’anima è dire anche che sono naturali l’uno per l’altro. Quest'affinità è confermata a livello dottrinale nel dialogo. Come a Raymundo Panikkar piace dire, le religioni sono molto simili alle lingue. Da un lato, le lingue degli altri suonano insensate a coloro che non le parlano e le peculiarità di ciascuna sono sconosciute fino a che gli uni non imparano quelle degli altri. Dall’altro lato, nonostante tutte le loro differenze, non c’è un’idea generale in una lingua che non possa essere capita in ogni altra6. Solo attraverso l’esperienza si può sapere cosa significhi che una nuova lingua arricchisce la mente in generale e la comprensione della propria lingua in particolare.

Similmente, quando le espressioni dottrinali o le Scritture del buddhismo sono viste attraverso la lente cristiana o viceversa, senza un esplicito riconoscimento della fondamentale naturalezza dei cammini religiosi l’uno per l’altro, e per la mente che tenta di tenerle entrambe in dialogo, esse possono apparire solo come distorsioni l’una dell’altra. Questa consapevolezza – la si potrebbe chiamare una conversione ad un’altra religione in senso intransitivo, una metanoia senza perdita di fede – a sua volta eleva la sensibilità alla ricchezza del passato della propria religione, attivando equivalenze e similarità nei più inaspettati angoli della tradizione.

Ovviamente c’è molto nelle religioni storiche che rappresenta un'esecrabile imposizione sullo spirito umano (in alcuni casi così schiacciante da infettare l’intera religione). Né il cristianesimo né il buddhismo sono immuni da questo fardello. Per ogni coppia di religioni che dialogano, queste cose non possono essere trascurate. Senza una dedizione alla basilare affinità naturale, tuttavia, la tentazione che ad un certo punto la discussione su queste materie degeneri in contestazione è tutt’altro che impossibile.

Ci sono forme di interazione religiosa che si misurano in termini di vincitori e perdenti. La guerra ne è un ovvio esempio; la conversione attraverso il proselitismo ne è un altro. Il forum del dialogo non è un’arena; nessuno guadagna punti, perché non ci sono punti da segnare. È piuttosto, come ho detto in apertura, un’avventura delle idee: attraverso le proprietà singolari e distintive che evidenzia il proprio cammino religioso a differenza delle altre, scorgere l’umanità universale sottostante e ritornare da questo universale a dare un secondo sguardo all’inesplorato potenziale della propria particolarità stessa.
 

La coscienza religiosa dell’epoca, che nutre lo spirito di dialogo, non è molto attratta dalla religione istituzionale come l'abbiamo conosciuta nel passato. Essa sceglie qua e là dai sacri testi del passato, li accosta ai testi moderni e ricuce tutto nel drappo del proprio disegno. Questa è una costruzione della fede che le religioni organizzate hanno sempre trovato pericolosa, ma potrebbe anche essere la strada con cui l’anima ha sempre trovato un senso anche nel più dogmatico sistema di credi religiosi, in mezzo ad un mondo più ampio del dogma. Essa sembra segnalare mutamenti radicali in serbo alle grandi religioni storiche mondiali come oggi le conosciamo7.

In ogni caso, lo spirito di dialogo del quale abbiamo fatto esperienza è certamente più grande di noi, e ancora soffia alle nostre spalle. Saremo davvero i suoi servitori, solo se proteggeremo noi stessi dal diventarne padroni. Questa era l’atmosfera nella quale entrai più di due decenni fa e che ancor oggi trovo fresca e stimolante come lo era allora, quando Jan Van Bragt venne ad accogliermi sulla porta…

 

->

->

* [Titolo originale: Six Sūtras on the Dialogue among Religions, in J. W. Heisig, Dialogues. At One Inch Above the Ground, New York 3003, pp. 141-157. Nella presente versione italiana gli interventi racchiusi in parentesi quadre sono del traduttore. La presente traduzione è apparsa in «Rassegna di teologia», 4, 2004, pp. 578-90.]

1 Il Nanzan Institute for Religion and Culture è da 25 anni attivamente impegnato nel dialogo con le filosofie e le religioni del Giappone. Ispirato inizialmente all'atteggiamento positivo del Concilio Vaticano Secondo nei confronti del valore dei vari cammini religiosi e delle possibilità per una cooperazione universalmente vantaggiosa, esso è diventato parte della generale ricerca, propria dei nostri tempi, di una spiritualità abbastanza profonda ed estesa da non escludere nulla di vero e valido presente nelle tradizioni e nelle pratiche religiose dell'umanità.

2 Jan Van Bragt, «Sho shūkyō taiwa no shomondai» [Questioni di dialogo interreligiosoQQQQQ], a cura del Nanzan Institute for Religion and Culture, in Shūkyō to bunka [Religione e cultura], Jimbun Shoin, Kyoto 1994, p. 45.

3 Cf., ad esempio, Yamaori Tetsuo, «“Shūkyōteki taiwa” no kyōmosei: “Shūkyōteki kyōzon” to no taihi ni oite» [L'ingannevolezza del "dialogo interreligioso": una contrapposizione con la "coesistenza interreligiosa"], in Shūkyō to bunka, cit., pp. 83-96; Shūkyō no hanashi, Asahi Shinbunsha, Tokyo 1997, pp. 232-3.

4 Cit. in R. Otto, India’s Religion of Grace and Christianity Compared and Contrasted, SCM Press, London 1930, p. 59.

5 Nella sua Apologia, diretta a difendere le critiche degli eretici e dei pagani, Tertulliano impiega la frase nel primo senso solo di passaggio. Viene più ampiamente trattata nel suo De testimonio animae, dove vale il secondo, più positivo, significato.

6 R. Panikkar, La nueva inocencia, Editorial Verbo Divino, Estella 1993, p. 388.

7 Vd. il mio What Time Is It for Christianity?, in Metanoia, 8, 3/4, 1998, pp. 99-121 [ora in J. Heisig, Dialogues. At One Inch Above the Ground, New York 2003, pp. 187-215].



Facebook Twitter Youtube
Newsletter




Acconsento al trattamento dei miei dati personali.

Videocorsi scaricabili
Dona ora
Iscriviti ad Asia
Articoli
Eventi