Riportiamo qui un estratto dalla tesi di Laurea in Scienze dell'Educazione di Chiara Teneggi dal titolo "Educare attraverso il non senso"
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Per rispondere a questa domanda partirò direttamente dall’insegnamento lasciatoci da Husserl.
Non potendo riportare integralmente l’iter attraverso il quale egli ha sviluppato il proprio pensiero (se non altro perché devierebbe il taglio pedagogico che impronta questa mia tesi), mi sono concentrata su quei tratti essenziali che l’ hanno caratterizzato. Ho cercato poi di verificare se e come i fondamenti della sua filosofia siano riscontrabili anche nel Buddhismo. Il risultato che ho ottenuto è che entrambe queste scienze presentano lo stesso metodo di indagine che conferisce loro la stessa struttura, qui di seguito enucleata.
2.1 La Fenomenologia come scienza
Nel capitolo precedente ho voluto soffermarmi a lungo sul clima culturale che penso abbia dato impulso all’insieme delle riflessioni di Husserl. In seguito a quanto emerso, apparirà ancora più ricca d’efficacia la contrapposizione da lui rilevata tra l’atteggiamento fenomenologico e quello dogmatico, (in quest’ultimo v’include come un caso particolare anche l’atteggiamento naturale, vale a dire quell’atteggiamento che fa dell’ovvietà il senso comune). Egli, infatti, fa rientrare nell’accezione di dogmatiche tutte quelle scienze che "hanno bisogno della critica e precisamente di una critica che esse non sono in grado di compiere." Attribuisce invece alla Fenomenologia una sfera d’azione totalmente diversa perché, ponendosi l’obiettivo di rendere possibile quella critica della conoscenza che si pone la domanda sul "come mi è dato il mondo e in che modo mi è possibile conoscerlo", la Fenomenologia dovrà essere la scienza in grado di esercitare la critica sopra tutte le altre, nonché sopra se stessa. Dalla presenza del pronome personale ‘mi’, si comprende subito che questo nuovo ambito di ricerca non vuole essere una scienza di fatti, vale a dire di dati assunti come oggettivamente esistenti nello spazio e nel tempo. La sua intenzione è quella di costituirsi come scienza che ricerca l’esperienza originaria del dato. Esperienza perché ogni acquisizione di sapere presuppone l’esperienza di un soggetto per il quale questo accadimento sia tale. Ciò significa che non ha senso parlare di una verità trascendente, perché la conoscenza è sempre ‘conoscenza per qualcuno’, o meglio, per la coscienza che ne fa esperienza. Originaria perché le modalità caratteristiche con cui i fenomeni appaiono, si presentano in modo immanente alla coscienza e per questo aprono alla Fenomenologia la possibilità di fondarsi come scienza di essenze. Per realizzare la sua intenzione, la Fenomenologia dovrà esigere la più perfetta libertà da ogni presupposto e, in rapporto a se stessa, un atteggiamento di assoluta visione riflessiva. Se tutte le teorie delle discipline matematiche e tutti i loro principi si basano su una logica formale, quindi sul metodo mediato della deduzione e dell’induzione, allora la Fenomenologia, per rendersi indipendente da tutte le altre discipline, dovrà iniziare a differenziarsi proprio a partire dal procedimento attraverso il quale garantire, sul piano teorico e soprattutto pratico, la validità dei propri risultati. Allontanandosi dal procedimento logico, la Fenomenologia vuole essere una scienza nei limiti della semplice intuizione immediata e, diffidando di ogni teorizzazione, una scienza (di essenze) puramente descrittiva. Ho messo in risalto alcuni termini poiché vi è un legame di dipendenza tra loro: si cercherà di descrivere fedelmente, infatti, ciò che appare ed in ultimo solo ciò che alla coscienza appare come originariamente evidente attraverso l’intuizione. Viene fissata così la prima norma:
"…non trarre profitto da nulla se non da quello che possiamo renderci essenzialmente intuitivo nella pura immanenza della coscienza."
Sono arrivata ad enucleare i primi elementi distintivi, che m’impongono un approfondimento ed un’attenta considerazione, perchè richiamano ad una prassi sorprendentemente conforme a quella del Buddhismo Madhyamika.
2.2 Il Principio dal quale partire: la Relazione
Il fenomeno ‘relazione’, per sua natura, implica il legame tra due o più elementi che, in base alle loro caratteristiche e proprietà, determinano la tipologia del rapporto. Reputerei, quindi, poco sensato spiegare questo principio senza fare prima chiarezza sui termini della relazione.
IL SOGGETTO: Scrive Husserl nelle Idee che anche se vi fosse un dio, o un altro io diverso dal soggetto in questione, in grado di conoscere la causa e la natura ultima di ogni essente "bisognerebbe che io potessi intravederne la possibilità di esistenza", ovvero, bisogna che (questo altro da me) entri a fare parte del regno universale della mia esperienza possibile. Di conseguenza e inevitabilmente si porrebbe allora il problema della correttezza di giudizio esistenziale a riguardo, poiché tale entità dovrebbe per principio offrirsi a colui che la percepisce e "verrebbe incontro quale auto-offerenza originale a colui che giudica."
Vale a dire che, anche supponendo fittizio il mondo della mia esperienza, qualsiasi altro essente in grado, al contrario di me, di attingere in modo vero ai fenomeni, sarà un essente per me e quindi dovrà essere compreso nel mondo della mia esperienza, alla stessa maniera in cui per me esistono, quali aperte possibilità (aperte perché io non ne ho la certezza), esseri umani, piante ed animali che vivono sul pianeta che a me è (per ipotesi) inaccessibile ma che tuttavia fa parte del mio mondo circostante. Lo stesso vale per qualsiasi altro risultato raggiungibile, così che, anche la più alta trascendenza della ‘cosa fisica’ (come i numeri, le forme geometriche, la natura fisica in antitesi a quella apparente o Dio) non significa nessuna evasione dal mondo della coscienza, ossia dal mondo di ogni io che funzioni da soggetto conoscitivo.
Con queste ed altre argomentazioni (per le quali rinvio alla lettura del primo libro delle Idee), Husserl mostra la centralità dell’esperienza soggettiva in ogni campo d’indagine. Approfondendo gli studi sugli atti intenzionali della coscienza (già svolti da Brentano), ne evidenzia anche il carattere dinamico, per il quale essere coscienti non è un passivo cogliere e registrare dati esterni, ma significa dirigersi verso le cose e, nel percepirle, percepirne anche forme ed essenze, arrivando così ad attribuire i significati. Ogni conoscenza, infatti, presuppone un atto di cui la coscienza è l’origine intenzionale.
I FENOMENI: gli oggetti non sono meri contenuti della coscienza, ma si offrono ad essa ‘in carne ed ossa’, è grazie a questa presenza effettiva dell’oggetto stesso che si può arrivare alla sua visione. Ciò che appare non è l’immagine erronea o la rappresentazione di qualcosa d’altro, e neppure è contrapposto ad alcuna ‘cosa in sé’. Nulla quindi viene celato dietro esso perché il fenomeno è il rivelarsi dell’oggetto in sé, è l’essere stesso che appare.
Proprio perché il suo ambito di ricerca si svolge integralmente nella relazione (il principio), la Fenomenologia non si pone domande sulla esistenza o non esistenza dei fenomeni. Pertanto, che il rosso sia reale o illusorio, vi è comunque una bipolarità in cui si può distinguere l’atto intenzionale della coscienza che percepisce e incontra (vogliamo anche illusoriamente) il "fenomeno-rosso". Non vi è solo il percepito, ma l’atto del percepire e ciò che è percepito, l’atto dell’immaginare e l’immaginato. Grazie a questa discriminazione, Husserl scolla dagli oggetti la polarità del soggetto e viceversa, fino a mostrare che non sono inglobati l’uno nell’altro. Nell’apparizione del fenomeno alla coscienza, pertanto, la realtà è tutta compiutamente data, senza ulteriori residui dogmatici.
Emerge così l’elemento essenziale da cui prendere le mosse per una indagine:
La RELAZIONE ovvero, la misteriosa correlazione che sempre si pone tra atti della coscienza intenzionale ed oggetti della realtà.
Non si tratta di scegliere tra la realtà della coscienza e la realtà mondana, non si tratta di optare per il materialismo o l’idealismo, lo spiritualismo o il naturalismo. In qualsiasi di queste prospettive si trascura un polo così che, ciò che è ultimativamente reale è la relazione stessa, ovvero il suo mostrarsi nella presenza vivente. Il problema di questa relazione è il problema stesso della conoscenza e più in generale della filosofia.
La Fenomenologia offrirà un metodo per indagare tale correlazione, schiudendo la possibilità di guardare con altri occhi: non si tratta più del rapporto irraggiungibile tra due esistenze estranee e contrapposte (il vissuto del soggetto e l’oggetto esterno a questo vissuto), quanto piuttosto di indagare questo rapporto nelle sue due polarità: gli atti della coscienza (noesi) ed i suoi contenuti oggettivi (noema.)
2.3 L’Obiettivo
L’Intuizione: l’intuizione fenomenologica ha un senso più ampio rispetto a quella oggettiva tradizionale.
L’intuizione ha a che fare col darsi immediato delle cose, siano esse immaginazioni o realtà. Questa esperienza, possibile solo all’interno del soggetto, implica un altro accadimento, chiamato da Husserl "visione originalmente offerenteVisione è qui da intendere non come generica e vaga rappresentazione, ma in senso pregnante, come (visione) capace di afferrare il fenomeno in "carne ed ossa," nel suo manifestarsi da se stesso e a partire da se stesso. ."
"L’immediato vedere -noein- non soltanto il vedere sensibile, empirico, ma il vedere in generale come coscienza originalmente offerente di qualunque specie, è l’ultima sorgente di legittimità di tutte le affermazioni razionali. "
Essa si differenzia anche dalla visione del naturalista, che intendendo questo termine come sperimentabilità, cerca sì di volgersi alle cose stesse per interrogarle e liberarle da pregiudizi, ma per il quale la cosa sensibilmente apparente (il dato della percezione) funge come falsa immagine della ‘vera cosa fisica’ e pertanto si sente autorizzato a pulire l’esperienza immediata con un sapere mediato. Ingenuamente, così procedendo, egli diventa vittima di pregiudizi che non tengono conto che ogni asserzione, ogni cosa su cui si indaga, non può prescindere dall’ ‘io vedo’e che non attribuirvi alcun valore sarebbe assurdo. Ecco il motivo per il quale Husserl invita a partire dalla sfera complessiva del dato visibile, quindi da tutto ciò che si può immediatamente vedere ed afferrare e che è anteriore ad ogni pensare teoretizzante, purché non ci si lasci accecare dai pregiudizi e quindi distogliere dal prendere in considerazione intere classi di dati genuini. Nessuna autorità , nemmeno quella delle moderne scienze naturali, può privare il fenomenologo del diritto di riconoscere come equivalenti sorgenti di conoscenza tutte le modalità della visione. Per superare ogni rischio di cadere in un dualismo, come quello cartesiano bisogna attenersi al principio metodologico aureo della Fenomenologia:
"Ogni visione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire in carne ed ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà.
Qualsiasi procedimento o ragionamento non intuitivo che il fenomenologo utilizza ha soltanto il significato metodico di condurre il suo sguardo davanti alle cose, che una successiva visione diretta dell’essenza deve portare a datità.
La Percezione: è una esperienza originariamente offerente, per cui possedere un dato nell’originale, osservarlo e percepirlo in una visione immediata sono la stessa cosa. Husserl distingue la percezione ordinaria da quella fenomenologica, questa sarà una differenza essenziale anche per il Buddhismo (vedi Paragrafo 9 di questo capitolo, in "L’obiettivo: la Prajna").
Normalmente nell’esperienza comune non sperimento dati sensibili puri e concetti puri, ma sperimento percezioni che uniscono immediatamente in un oggetto dati sensibili e concetti. Questo fa sì che, per esempio, davanti ad un fiore io non veda un ente fatto proprio in un certo modo, con esattamente questa consistenza, questo andamento, con proprio questi colori, etc…; ma io vi percepisca subito, per esempio, una rosa rossa. Bisogna poi aggiungere che alla percezione di ogni momento si accompagnano ricordi di precedenti esperienze, percezioni, e attese di esperienze possibili. La percezione, pertanto, pur restando esperienza originariamente offerentesi deve essere supportata da strumenti in grado di ripulirla dalla fitta selva dei concetti acquisiti per lo più arbitrariamente. Il percepire fenomenologico porta l’ente a datità originaria.
2.4 La Prassi
La Descrizione: Per essere confacenti alla sfera dell’immanente, tutte le conoscenze a cui perviene la Fenomenologia devono essere descrittive. Provare a mostrare fedelmente con le parole ciò che appare come tale, infatti, allontana dalle teorizzazioni deduttive e serve ad eliminare ogni procedimento idealizzante. Husserl mette in chiaro subito che una Fenomenologia descrittiva è per principio indipendente da tutte quelle discipline che si edificano attraverso deduzioni mediate, come ad esempio la matematica. Il modo di procedere della Fenomenologia consisterà nel mettersi davanti agli occhi dei puri accadimenti di coscienza sforzandosi di individuarli in perfetta chiarezza, in tale chiarezza li
analizzerà e cercherà di coglierne l’essenza e gli intuitivi nessi tra essenze, occorrerà poi fissare ciò che di volta in volta si è mostrato in fedeli espressioni concettuali, il cui senso viene determinato in base a ciò che si è visto e penetrato.
" Soltanto se vediamo un oggetto in piena chiarezza, se lo esplichiamo e comprendiamo concettualmente rimanendo sulla base della visione e nell’ambito di ciò che abbiamo effettivamente colto nella visione, se quindi vediamo (come in una nuova modalità del vedere) come esso è costituito, allora quell’asserzione in grado di esprimere fedelmente tutto ciò è legittima."
Adattare fedelmente al dato i concetti utilizzati implica eliminare ogni ambiguità e vaghezza creata dalla lingua comune che spesso attribuisce ad una medesima parola mutevoli significati. Il senso che deriva dalla coincidenza col dato intuitivo, deve pertanto essere scientificamente fissato.
"È chiaro che qualsiasi teoria può attingere la sua verità soltanto dai suoi dati originari. Dunque come dicemmo dall’inizio di questo capitolo, ogni affermazione che si limiti ad esprimere tali dati, esplicandoli con termini significativamente aderenti, costituisce effettivamente un cominciamento assoluto, un principium nel genuino senso della fondazione."
Mi sembra a questo punto opportuno precisare che il tentativo di descrivere fedelmente ciò che appare alla coscienza nella sua auto-offerenza, trova piena legittimità nel principio sopra indicato: la relazione. Nell’atto dello descrivere, quindi, non ci si interroga sulla reale o illusoria esistenza delle cose, ma su che cosa sia il percepito come tale.
Questo ambito richiede, forse ancora di più, uno sguardo vigile perché capace di distinguere ciò che è chiaramente dato ad una pura ragione intuitiva da ciò che sovente l’intelletto astratto contrabbanda come se fosse direttamente osservato e invece è frutto di ovvietà e di pregiudizi inconsapevoli. Cogliere questo apparire originariamente significa spogliarsi di tutte quelle teorie ed essenze trascendenti la coscienza che fanno da filtro tra noi e le cose. Per esempio, gli oggetti della fisica come LA massa, IL peso, LA temperatura, LA resistenza elettrica non esistono come apparizioni originarie. Esiste, piuttosto, un mondo di cose dalle quali, grazie ad accadimenti e connessioni percepite, il fisico estrapola determinate proprietà. Tali predicati, di conseguenza, non trascendono il fenomeno, non sono ad esso estranei, non hanno una esistenza propria. Pertanto, da un lato possono manifestarsi solo sensibilmente, dall’altro non riescono a spiegare nulla del fenomeno cui sono riferite.
Voglio portare un esempio prendendolo dalle espressioni che abitano il nostro modo naturale di esprimerci. Se dico " è caldo perché ci sono 38 gradi", scambio per causa un effetto.Il calore è, infatti, un fenomeno che si offre in modo immediato al mio percepire, l’uomo di scienze lo traduce con 38 gradi, ma questo numero non è la causa del calore, né il calore stesso, bensì una "determinazione logico-empirica" di quello stesso fatto e come tale acquista significato all’interno di una scala di valori (0°- 40°) che fungono da parametri. Dove posso, al di fuori del calore che in questo momento esperisco, trovare il fenomeno 38 gradi?
"…è quindi contraddittorio connettere causalmente le cose dei sensi e quelle della fisica." La cosa sensibilmente apparente, che ha figura, colore, odore, sapore sensibili, non è dunque un segno per concetti come forza, accellerazione, massa, temperatura, peso etc..., nè è indizio per una serie di proprietà causali di questa medesima cosa, giacché, se fossero tali apparirebbero in una serie di concatenazioni sensibili ed invece trascendono il dato. In certo modo il sensibilmente apparente è segno per se stesso. Nel momento in cui si va ad indagare, analizzare e descrivere il percepito, bisogna tenere separate l’immanenza dalla trascendenza (nel senso quindi di costruzioni intenzionate dalla coscienza in vista di una determinazione teoretica): ci sono sfere di essenze che non appartengono all’immanenza della coscienza, questo vale sia per le essenze logico-formali, quali numero, ordine, molteplicità, ma anche per le essenze desunte dalla sfera del mondo naturale (come cosa, uomo , persona). Come scrive Husserl, "Bisogna imparare ad avere intuito per distinguere questi due tipi di essenze," per iniziare a questo tipo di discriminazione egli fornisce tre indicazioni "di grande significato metodologico," riunendole sotto il termine di Coscienza Pratica.Coscienza Pratica:
2) Devono essere giudicativamente messe in parentesi, per assicurare la purezza dell’indagine
3) Dalle rispettive scienze che indagano le corrispondenti sfere (ex: per la natura fisica c’è una disciplina che studia la natura, per l’animalità una disciplina che studia l’ontologia della animalità, etc…), nemmeno un assioma può venire accettato e assunto come premessa per gli scopi della Fenomenologia.
"Grazie allo sviluppo della coscienza pratica ci mettiamo metodicamente al riparo da quelle confusioni, così profondamente radicate in noi, dogmatici nati, da non potere essere altrimenti evitate."
2.5 Lo Strumento
Una volta mostrato il cammino da seguire, diventa indispensabile avere a disposizione un mezzo che aiuti il fenomenologo a non deviare la rotta: viene così introdotto lo strumento principe della Fenomenologia.
L’Epochè: come accennato precedentemente epochè significa restare in una sospensione che scaturisce dal mettere tra parentesi le proprie convinzioni, le nozioni acquisite ed anche i propri atteggiamenti. Husserl, per spiegare dettagliatamente in che modo si possa praticare l’epochè, si serve dell’analisi di alcuni aspetti impliciti in una forma di indagine assai frequentata da tutti e quindi più famigliare: il dubbio. Che cosa accade, dunque, quando noi dubitiamo?
Ci volgiamo a ciò che è consaputo come alla mano e cerchiamo di revocarne in dubbio l’essere e/o ogni espressione predicativa a riguardo (questo è così, questo si comporta così, etc…).
Questo modo di rivolgerci all’oggetto in questione "esige una certa interruzione della tesi, e questo appunto ci interessa, " infatti, nel momento in cui dubitiamo non possiamo attribuire il valore di certezza a ciò che prima ci sembrava ovvio.
Nel tentativo di dubbio, quindi, ad una tesi è affiancata, come nuovo elemento, una antitesi che introduce il non-essere (ex: questa cosa è così o non è così?). Ne consegue che quella stessa tesi che, nel momento precedente, sembrava inconfutabile al punto da assumere il carattere di un’asserzione (es: questa cosa è così), viene per un attimo sospesa grazie alla comparsa di quel "…o non è così?", ma non eliminata. Il metodo della negazione non comporta quindi l’affermazione della posizione opposta a quella da verificare (es: questa cosa non è così), ma ci spinge ad una semplice messa tra parentesi di quanto ancora é da dimostrare.
"Non si tratta infatti della trasformazione della tesi nell’antitesi, della posizione nella negazione; e nemmeno si tratta di trasformare la tesi in supposizione, in indecisione, in dubbio (preso in qualunque senso)."
Nell’atto di dubitare, non rinuncio alla tesi dalla quale parto, non modifico la mia convinzione, "che rimane quella che è fintanto che non introduciamo nuovi elementi di giudizio. Cosa che appunto non facciamo." Né, tanto meno, si tratta di lanciare supposizioni (ex: "Ma sarà così?" Oppure: "Forse è così"), tuttavia, si verifica una modificazione del mio modo di atteggiarmi verso le cose, in quanto, mentre la tesi permane in sé quella che è, io per così dire la metto "fuori azione", la "neutralizzo", la metto "in parentesi". Precisamente Husserl scrive che"La messa tra parentesi è una modificazione di coscienza".
Accade, infatti, questo particolare evento: la tesi sussiste sempre, come ciò che è stato messo in parentesi sussiste ancora dentro le parentesi, ma perde del credito precedente e per questo non riesco più a farne uso. Husserl sviluppa proprio questo fenomeno della messa in parentesi, che sebbene ricavato dal dubbio non ne resta vincolato e può presentarsi anche da solo, come appunto nell’epoché.
"Riguardo ad ogni tesi noi possiamo esercitare in piena libertà questa caratteristica epoché, una certa sospensione di giudizio, che è compatibile con l’indiscussa, o magari indiscutibile e evidente, convinzione della verità. La tesi viene posta "fuori azione", messa "in parentesi", e si tramuta così nella modificazione "tesi in parentesi", come il giudizio si tramuta in "giudizio in parentesi"
"In piena libertà" è da intendere nel senso che (grazie a questa caratteristica possibilità della coscienza), volontariamente, ci dirigiamo sulla tesi originaria e la mettiamo fuori azione. A differenza del dubbio, nell’epoché non devo introdurre la negazione, non devo trasformare la tesi in antitesi, ma è sufficiente attuare la stessa disposizione interiore che, se io dubitassi, verrebbe suscitata dall’irrompere della negazione, vale a dire la messa in parentesi della tesi. Non essendovi così alcuna presa di posizione, la neutralizzazione rende possibile la visione del campo fenomenologico ed il coglimento dei suoi dati.
"Questa trasvalutazione è cosa di nostra piena libertà, e si contrappone a tutte le prese di posizione concettuali che vanno coordinate alla tesi e sono con questa incompatibili, come in genere a tutte le prese di posizione nel genuino significato della parola"
Col metodo della messa in parentesi Husserl è determinato a conquistarsi il nuovo territorio scentifico. La prima ‘posizione’ a dovere essere sospesa è quella dell’atteggiamento naturale che fa esperienza della realtà in modo ingenuo e vedendolo come ‘alla mano’ e ‘qui per noi’. Sia nella vita pratico-naturale, sia nelle scienze positive, il mondo viene dato come preliminarmente essente, l’epoché fenomenologica invece vieta l’attuazione di questo giudizio e di qualsiasi presa di posizione predicativa nei confronti dell’essere, dell’essere così e di tutte le modalità d’essere nell’esistenza spazio-temporale del reale. Occorre neutralizzare tutte le scienze che si riferiscono al mondo naturale e per quanto valide nell’ambito scientifico, non farne uso alcuno, non appropriarsi di nessuna preposizione e da nessuna di esse ricavarne alcun fondamento.
2.6. Il Buddhismo
Prima di addentrarmi nel confronto tra Fenomenologia e Buddhismo, é utile, ai fini di una corretta e il più possibile esauriente visione d’insieme, far luce anche sul panorama storico-culturale dal quale non solo prende le mosse, ma anche attecchisce il Buddhismo ed in particolare il Buddhismo Madhyamika. Questo orientamento, del resto, si è dimostrato pienamente corretto sul piano metodologico, poiché mi ha fatto comprendere in profondità i motivi per i quali questi due mondi, apparentemente lontani e diversi tra loro, abbiano sviluppato un sistema filosofico che ha in comune la stessa impostazione e che mi fa pensare quindi ad uno stesso tipo di mente matrice.
Dal punto di vista socio-culturale il Buddhismo sorse in una parte dell’India dove, intorno a Benares e a Patna, nell’età del ferro erano saliti al potere ambiziosi sovrani guerrieri che avevano fondato vasti regni con grandi città, un commercio diffuso, una economia monetaria abbastanza sviluppata ed uno stato organizzato razionalmente. Questo progresso economico e politico aveva però provocato due forti disagi, il primo perché i piani tecnici e le operazioni militari di questi sovrani avevano scatenato una diffusissima e spesso insensata violenza e distruzione di vita. Il secondo, perché le città che si erano andate sviluppando, sostituivano alle piccole società tribali conurbazioni su vasta scala, con tutti i mali che questo comporta come la spersonalizzazione, la specializzazione e la disorganizzazione sociale. Il Buddhismo così fu, da un lato, uno dei tanti movimenti di reazione a queste tirannie tecnologiche emerse intorno al 3000 A.C., dall’altro seppe offrirsi come cura al forte individualismo che ne conseguiva e che caratterizzava la popolazione cittadina cui si rivolgeva.
Dal punto di vista storico-spirituale, il Buddhismo ebbe la sua origine in quel fervore intellettuale ed in quella crisi spirituale che agitò l’India intorno al VI e V secolo A. C., ed infatti, nasce come movimento in contrapposizione all’ortodossia brahmanica. Le scuole brahmaniche derivate dai Veda e dalle Upanishad (i testi più antichi della letteratura indiana ai quali é attribuita autorità divina) avevano imposto una visione dogmatica del mondo, i cui elementi fondamentali erano la reincarnazione ed il dualismo brahman-atman, rispettivamente il principio del mondo ed il principio individuale. Si era così costituita una teoria di peso rilevante sulla tradizione. Il Buddha storico pur non criticando direttamente i suddetti principi, si contrappone alle teorie brahmaniche, rifiutando di occuparsi di questioni speculative e metafisiche. L’insieme di questi fattori concorre a spiegare sia il motivo per il quale la maggior parte dell’attività pubblica del Buddhismo si svolse nelle città, sia il carattere intellettuale del suo insegnamento, l’"urbanità" del suo modo di esprimersi e la natura razionale delle sue idee.
Per le sue caratteristiche si è molto discusso se il Buddhismo sia una religione o una filosofia. Come religione, pur ammettendo facilmente l’esistenza di migliaia di divinità d’ogni ordine, il Buddhismo rifiuta di riconoscere, in una qualsiasi di queste, il Dio creatore e sovrano dell’universo, perché è certo che in nessuna parte di questo mondo si possa trovare un principio di stabilità, di consolazione e di assoluto. Presumo che sia per simboleggiare questa instabilità che gli dèi medesimi, tutti gli dei, pur avendo una vita molto più lunga di quella degli altri esseri, andranno fatalmente incontro alla morte che sarà seguita, molto spesso, da una esistenza penosa. Vano è quindi rendere culto alle divinità, così come futile è l’attaccamento superstizioso alle varie pratiche rituali. Non vi è alcun elemento permanente, immutabile, eterno negli esseri o nelle cose, non vi è alcunchè di analogo a quello che per gli Occidentali è l’anima, per gli indù è il sé. Ogni esistente si ritrova solo, assolutamente solo, senza nulla, né in lui né sopra di lui, cui potersi ancorare per sfuggire alle vicissitudini dell’esistenza, nel suo innato desiderio di felicità eterna. Religione senza Dio, senza anima, senza culto, il Buddhismo originario è sicuramente una ben strana religione. Se si aggiunge poi che, giudicando sterile la fede cieca dell’individuo, fa appello alla ragione ed alla comprensione delle concezioni su cui poggia, apparirà senza dubbio una religione ancora più strana.
Il Buddha, infatti, sosteneva che "La stupidità deriva dal non interrogareper questo tutte le proposizioni, comprese le sue, devono essere dimostrate, ed i buddhisti reagivano al non dimostrato con un benevolo scetticismo. In questo modo sono stati in grado di adattarsi ad ogni genere di credenza popolare, non soltanto in India, ma in tutti i paesi in cui si sono recati.,"
" Il Beato si rivolse ai Kalama e disse: " é giusto che voi abbiate dubbi e perplessità; la perplessità si è alzata in voi rispetto a quel che è dubbioso (...) Non fatevi guidare da dicerie, tradizioni o dal sentito dire. Non fatevi guidare dall’autorità dei testi religiosi, né solo dalla logica e dall’inferenza, né dalla considerazione delle apparenze, né dal piacere della speculazione, né dalla verosimiglianza, né dall’idea ‘questo è il nostro maestro’ "
Essendo la domanda il perno di questa dottrina, il Buddhismo può essere più propriamente considerata una filosofia e un primo indizio si trova nella stessa parola "buddha". Buddha significa svegliarsi alla realtà profonda, celata sotto l’apparenza molteplice ed ingannevole dei fenomeni. Non stupirà quindi che la salvezza si ottenga non tanto attraverso l’affidamento ad un’altra entità, ma grazie alla conoscenza del reale, di cui la meditazione e l’analisi critica sono un mezzo privilegiato. Questo era il motivo che spingeva i monaci ad imbattersi in questioni che appartengono, in tutto il mondo, al campo della filosofia, come la natura e la classificazione della conoscenza, i problemi di causalità, di tempo, di spazio, dei criteri di realtà, dell’esistenza o non esistenza di un io. La maggior parte di questi problemi sono dichiarati da Buddha come insolubili poiché la ragione si involve in un conflitto profondo ed interminabile quando tenta di andare oltre i fenomeni e cercare la loro base ultima; così se un teorizzatore può rispondere sì ad una domanda, un altro può rispondere no alla medesima domanda. Essendo cosciente della natura interminabile del conflitto, il Buddha lo risolse portando come opposizione al dogmatismo il punto di vista superiore della critica. Molto prima che qualcosa di simile venisse formulato in Occidente, nasce così in India la dialettica, vale a dire l’arte di mostrare, con una argomentazione logica serrata, i punti deboli di ogni teoria. Buddha sapeva che se si fosse ritirato da questa posizione e avesse dato una risposta nei termini del sì e del no, sarebbe stato colpevole di quello stesso dogmatismo che condannava negli altri. L’analisi penetrante è l’altro aspetto che si trova nel Buddhismo ed é complementare al precedente. Attraverso l’analisi, ogni fenomeno che per il linguaggio costituisce una unità (ex: la persona) viene scisso nelle rispettive parti costituenti (materia, sensazione, percezione, etc….) fino a mostrare la parola (che pretendeva di esaurire il fenomeno in una unità) per ciò che è: una costruzione linguistica incapace di assorbire o sintetizzare le reali molteplicità e diversità. In questo modo si dissolvono sia il referente sia l’essenza del nome, il quale resta un valido e comodo strumento, ma fuorviante se si vuole comprendere come realmente sono le cose.
2.7 Il Buddhismo Madhyamika
Dopo la morte del Buddha storico Sakyamuni, sulle sue dottrine fondamentali si radicarono due grandi indirizzi scolastici: l’Hinayana (Piccolo Veicolo) ed il Mahayana (Grande Veicolo).
Il primo, più legato alla tradizione, accusava il secondo di avere falsato l’originario insegnamento introducendo nuovi testi, la cui provenienza era oscura, ma che invece venivano considerati come diretti insegnamenti del Buddha. Uno di questi testi, attribuiti allo Svegliato, era una raccolta di 40 discorsi, la Prajna Paramita o Perfezione della Gnosi. La gnosi è l’intuizione della vera realtà delle cose e consiste nella percezione della vacuità (shunyata) di tutto quello che esiste.
Il concetto di vacuità sebbene non fosse ignoto ai testi del Piccolo Veicolo (nei quali esso appare nel significato di "privo" o "privazione", generalmente da intendere come privo di sé, di sostanza, di natura propria), si afferma in tutta la sua importanza solo nelle scuole del Grande Veicolo, dove è considerata supremo fine per l’uomo e davanti alla quale sfuma anche l’importanza della figura storica dello Svegliato.
Il Mahayana sorse nel I sec. A.C circa, ma le origini rimangono sconosciute, non fu mai un movimento spirituale unitario, quindi sotto questo nome si trovano diversi pensatori e un grande numero di scuole filosofiche. L’esposizione più chiara e rigorosa delle dottrine della Perfezione della Gnosi, sono le Madhyamakakarika, (Stanze del cammino di mezzo). L’autore di esse è Nagarjuna, vissuto a quanto pare nell’India Meridionale intorno al II secolo d.C., che fu uno dei più grandi pensatori e dottori di tutto il pensiero dell’India e un convinto assertore della prammaticità di ogni parola. Le "Stanze del Cammino di Mezzo" sono un’opera divisa in ventisette capitoli e ogni capitolo sottopone ad un’analisi critica o un dato o un aspetto o una categoria della realtà nella quale siamo immersi. Alcuni capitoli sono esempi insuperati del rigore logico e della profondità dialettica del maestro Nagarjuna; il quale, fedele all’insegnamento del Buddha, rifiutandosi di scegliere tra posizioni opposte (soprattutto riguardo alla questione sull’esistenza o non-esistenza dei fenomeni) sviluppa una dialettica particolare che consiste nella riduzione all’assurdo di ogni asserzione predicativa dei fenomeni.
Mi sembra giunto il momento di approfondire compiutamente i crititeri d’indagine che guidano il Buddhismo Madhyamika, in modo da rendermi così possibile il confronto con la Fenomenologia. Per facilitare la comparazione seguirò la medesima struttura che mi è servita ad enucleare i punti essenziali dell’insegnamento Husserliano. Ricercherò quindi anche del Buddhismo Madhyamika il principio, l’obiettivo, la prassi ed infine lo strumento; in tale modo sarà subito facile verificare le corrispondenze o, nel caso contrario alla mia tesi, le dissonanze tra i due sistemi.
2.8 Il Principio
IL SOGGETTO: è considerato nella sua unità di mente e corpo. Essendo un fenomeno al pari di tutti gli altri, è analizzato e scomposto negli elementi fondamentali che lo costituiscono. Uno di questi fattori è Vijnana, la coscienza, nucleo centrale e residuo ultimo della personalità che abita questo corpo: è ciò che guarda, che sente, che sa, che reagisce. Può essere definita come ‘principio senziente’ ed infatti interagisce costantemente con i cinque organi di senso e con l’attività della mente. Sebbene sia la sorgente dell’esperienza non identificabile con le cose (poiché è ciò che si rende conto di esse e che si apre su di esse), è messa al livello di tutti gli altri fattori della personalità per evitare che le sia attribuita una dimensione divina.
I FENOMENI: il mondo dei fenomeni che costituisce la nostra ordinaria esperienza può essere scomposto attraverso una minuziosa analisi in una serie di elementi (dharma) definiti fondamentali, nel senso che non possono essere ulteriormente scissi e che hanno una uguaglianza indubitabile a se stessi.
Quando si perviene alla visione dei dharma le cose si mostrano nella loro estrema caratterizzazione qualitativa e appaiono nel loro modo originario di offrirsi alla coscienza. Per questo motivo potrei affermare che i dharma coincidono con la visione delle essenze Husserliana. LA RELAZIONE:
2.9 L’Obiettivo: Prajna (intuizione)
La Prajna non è una facoltà particolare che dipende da cause e condizioni, ma è uno stato di coscienza, un evento mentale che deriva dall’analisi e dalla ricerca, quando l’intelletto si libera dalle restrizioni concettuali. Analogamente alla Fenomenologia, quindi, la possibilità dell’intuizione intellettuale viene non solo accettata, ma ritenuta il nucleo più profondo della realtà. Il Buddhismo, come la Fenomenologia, distingue l’intuizione sensoriale (che Husserl chiama oggettiva) dalla Prajna, che Husserl nomina come intuizione fenomenologica. A differenza della intuizione sensoriale, che è un atto empirico specifico, transitorio e con un contenuto limitato, la prajna è una intuizione che dà accesso ad una forma di conoscenza generica ed invariabile di cui gli altri modi di apprensione sono specie particolari. In corrispondenza al principio che, non considerando svincolato il soggetto dall’oggetto, sottolinea la relazione tra i due, la Prajna è un tipo di conoscenza non duale, vale a dire in grado di eliminare la distanza tra percettore e percepito, tra conoscenza e reale. Questo tipo di gnosi non è di per sé una acquisizione, infatti, non prevede la crescita di informazioni. Tanto meno si ottiene attraverso facoltà speciali, quanto piuttosto svestendo la mente dalla sua disposizione naturale a biforcare e a concettualizzare. La prajna non ha la funzione di trasformare il reale, che rimane come è sempre stato, ma solo di creare un cambiamento nel nostro atteggiamento verso di esso.
Per comprendere tutti i casi di cognizione dell’oggetto, il madhyamika accetta come fonti di conoscenza la percezione ed il ragionamento. Il motivo che tra breve mi spingerà ad accostare l’illustrazione della Prajna a quella della percezione (piuttosto che rimandarne la spiegazione al paragrafo su ‘lo strumento’), trova la sua giustificazione nelle caratteristiche di quest’ultimo fenomeno, il quale si presenta così collegato alla intuizione e quindi alla retta visione da potere essere tranquillamente considerato oltre che mezzo, anche obiettivo.
Il sistema filosofico NYAYA (che etimologicamente significa ‘ l'arte di dirigere il proprio pensiero’ e quindi si presenta innanzitutto come una logica), dopo un lungo studio basato sull’esperienza, si è adoperato a determinare in maniera approfondita i pramana, ovvero le norme e gli strumenti più idonei a raggiungere la retta consapevolezza della realtà. Ha quindi elaborato una teoria della percezione, in cui si trovano compiutamente esposte le fonti di conoscenza cui il soggetto può attingere, esse sono quattro: la percezione, il ragionamento inferenziale, il confronto e la testimonianza di testi antichi. In seguito ad una lettura approfondita della teoria Nyaya, ho desunto che, sebbene essa non appartenga all’insegnamento madhyamika ed anzi per molti aspetti se ne distanzi, possa esservi invece accomunata per quanto riguarda l’intendimento della percezione e del ragionamento e la relativa legittimità conferita a questi mezzi di conoscenza. Attingerò, quindi, da questi studi la presentazione del complesso degli elementi volti a caratterizzare l’esperienza della percezione, soprattutto in ragione del fatto che gli studiosi di questo sistema sono riusciti ad indicarla in un modo che non ho trovato da altre parti.
La Percezione: designata come primo pramana o strumento di conoscenza, è di centrale importanza poichè da essa derivano tutti gli altri (l’inferenza, la comparazione e la testimonianza verbale), in ragione di questo legame di dipendenza è considerata il debutto dell’indagine cognitiva. La percezione (pratyaksa) si produce nel contatto (sannikarsa) di un oggetto specifico con un organo di senso. Essa si realizza, quindi, nell’offrirsi immediato del rapporto tra l’ente ed il soggetto e nei limiti di questo contatto, dove la parola limite ha la funzione di circoscrivere l’ambito di esperienza e non presenta il carattere della restrizione. Il suo peculiare modo di prodursi le conferisce la caratteristica di essere un tipo di conoscenza non denominante. Nella percezione, infatti, si vede il particolare o cosa in sé nella sua concreta individualità, trascendente il pensiero discorsivo e la parola. Vi è poi un secondo momento in cui all’intuizione diretta della cosa in sé si sostituisce una immagine discorsiva e quindi una parola, virtuale e effettiva. La realtà così come è, viene percepita soltanto nel primo momento, in cui la cosa è colta in tutta la sua interezza, per questo motivo la percezione è considerata un tipo di conoscenza non erronea e avente la natura della risoluzione.
Per Gautama, maestro della scuola Nyaya, un oggetto viene colto nella sua interezza quando se ne colgono le caratteristiche specifiche e quelle generiche: allorchè non si intuisca il segno caratterizzante della cosa, non si può parlare di conoscenza chiara. Chandrakirti, maestro della scuola Madhyamika, mette in guardia lo yogin principiante sul carattere della sua percezione, spesso condizionata dalle apparenze e confusa con le immagini discorsive che non hanno lo stesso carattere della realtà. Chandrakirti, come spiegherò tra breve, intende così rimarcare l’importanza di accompagnare un’attenta ed inesorabile analisi al primo momento della percezione.il Buddhismo Mahayana ha in comune con la Fenomenologia il metodo attraverso il quale cerca di cogliere il fainomenon, ciò che appare. Gli allievi di questa scuola, infatti, sono invitati a partire dal dato, cercando di cogliere il fenomeno nel suo primo apparire. Ciò che nella Fenomenologia è nominato con il termine descrizione, è la parte essenziale di ciò che il Buddhismo chiama analisi. Per arrivare ad una retta conoscenza, gli studiosi del Madhyamika procedono con l’individuazione e lo studio dei particolari, e cercano di scomporre la realtà (che si presenta come un tutto organico), nelle sue parti. Servendosi di una minuziosa descrizione che non si stanca di ridurre la realtà a ciò che non è ulteriormente scomponibile (a questa operazione in un secondo momento si accompagnerà il ragionamento) arrivano ad una estrema focalizzazione di cinque ambiti: la natura dei fenomeni, le cause di questi, gli effetti, le cause e gli effetti, infine, tutti i fenomeni.
2.10 La Prassi
Descrizione:
Porterò l’esempio di come questo tipo di Buddhismo descrive quanto abbiamo di più vicino: il fenomeno-persona. Riportato in un linguaggio più vicino al modo di esprimersi dell’Occidentale, il Buddhismo Mahayana si fa portavoce del seguente quesito: al di là delle impressioni che ne riceviamo e dei pregiudizi o convenzioni assimilate, che cosa è realmente ciò che indichiamo con il termine persona? Partendo dal primo tipo di analisi (l’analisi della natura dei fenomeni), vengono visti, (proprio nel senso di vedere, incontrare la realtà) cinque fattori essenziali della personalità, chiamati anche aggregati, tutti copresenti. Per verificare la correttezza delle asserzioni, invito il lettore a esperirsi, lasciandosi guidare dalle indicazioni che seguiranno e che mi ricordano un modo di procedere comune alla Fenomenologia.
Il primo aggregato è quello che concerne la materia e la forma (rupa), esso si riferisce all’aspetto materiale dell’esistenza, sia degli esseri viventi che del mondo che li circonda. Il secondo aggregato è la sensazione (vedana) per cui ogni esperienza è definita in base ad una valutazione di tipo edonistico: piacevole, spiacevole o neutra. Comprende, sia le sensazioni percepite con gli organi dei sensi, come la durezza, il calore etc.. sia quelle mentali di felicità, infelicità ed indifferenza. Il terzo è l’aggregato della percezione (o cognizione) di oggetti sia materiali sia mentali, il quarto è attinente alla serie di stati psico-emotivi come le impressioni ed emozioni che danno origine ad azioni e plasmano il carattere (quindi diverse da semplici emozioni che possiamo provare legate ad alcuni eventi). Infine il fatto di stare prendendo coscienza di tutto questo. Quanto appena riportato è solo una prima fase della prassi descrittiva e serve per indicare realtà concrete ma spesso celate dall’astrazione linguistica, in modo che uno yogin possa ricondurre i propri dubbi alle esperienze che li generano. A questa decrizione preliminare segue una critica serrata (per la spiegazione della quale rimando al paragrafo sullo strumento) volta a verificare se la parola ‘persona’ sia in grado di riportare l’essenza di questi fatti.
Il metodo MadhyamikaLogica del Concreto:
Volendo enucleare anche per questo tipo di logica delle indicazioni di grande significato metodologico (come direbbe Husserl), si potrebbe dire quindi che per sviluppare questa capacità occorre:
Abolire tutte le restrizioni imposte dai modelli concettuali e non fondarsi su alcuna visione. Ogni visione, infatti, è sempre relativa poiché parte da un punto di vista.
Purificare l’intelletto servendosi della funzione catartica dialettica (di cui parlerò tra breve) Non confondere l’immagine discorsiva con la cosa alla quale tale immagine si riferisce. La parola è, infatti, trattata come realtà, mentre serve solo a descrivere la differenza delle cose tra esse medesime.
In questa prassi, la connessione tra la parola e la cosa viene ammessa, tuttavia, essa non è qualcosa di necessario e naturale perché corrisponde semplicemente ad una convenzione stabilita dall’uomo, per esigenze pratiche (per cui, ad esempio, dicendo: "portami una brocca", faccio capire al mio interlocutore di quale oggetto ho bisogno.) Il fatto che tra la parola e la cosa sussista una relazione convenzionale, stabilita dall’uomo, fa sì che lo stesso termine venga inteso in modalità differenti, in sfumature ed accezioni diverse. Se tale connessione fosse naturale, questo non avverrebbe.
Vorrei terminare questo paragrafo con un passo estrapolato dal Nyaya che spiega in modo chiaro la funzione della parola:
"Quale è il tratto quindi caratterizzante della parola? Multiforme è il significato della parola, e soddisfa vari scopi: essa ci permette di distinguere una cosa in particolare, di riferirci ad una generalità specifica, ed infine ad una cosa concreta (prendendone in considerazione la figura). Infatti, ogni cosa specifica è sì caratterizzata da una particolare figura o forma, così che chiarezza, generalità, figura vengono convogliate nel significato della parola."
La parola, dunque, è un prezioso aiuto per indicare come sono fatte le cose, ma in virtù del fatto che ad esse è successiva, non fornisce alcuna spiegazione a riguardo.
2.11 Lo Strumento
Nel Madhyamika avviene qualcosa che dovrebbe essere molto famigliare all’Occidente, esso inizia con la negazione dei giudizi e delle opinioni. Questa negazione denuncia la falsità delle determinazioni attribuite dai sistemi filosofici al reale, poiché il reale trascende il pensiero, essendo anche quest’ultimo nella realtà. Il metodo impiegato è negativo, ma non il suo risultato che attraverso la negazione delle visioni raggiunge l’intuizione del reale. Il fine è scoprire se i fenomeni esistono o non esistono nel modo in cui appaiono. Per esempio nel mondo convenzionale si sa che il fuoco ha come proprietà il bruciare, e l’acqua il bagnare, ma questo tipo di indagine si propone di scoprire se vi è una natura più profonda oltre a quella menzionata.
Il Tetralemma: la distruzione di tutte le opinioni avviene attraverso la confutazione, Il tetralemma è un particolare schema di confutazione utilizzato da Nagarjuna che consiste nell’analizzare la natura di ogni singola entità e delle sue possibili relazioni con un predicato.
La relazione con un predicato può:
1) essere positiva: X é y;
2) essere negativa: X non è y
3) consistere in una unione o combinazione del positivo e del negativo: X è sia y che non-y
4) consistere in una doppia negazione di quella positiva e di quella negativa: X non é y, non é non-y.
Se una certa cosa possedesse un’esistenza intrinseca, essa dovrebbe resistere all’analisi stessa oppure, più la si cerca e più dovrebbe diventare chiara
Come è evidente, non la si può ritrovare in nessuno di questi modi: essa pertanto non esiste di per sé, indipendentemente dalla attività concettualizzante della mente. Riemerge anche in questo caso l’importanza di una visione relazionale.
Così, per esempio, ci si chiede se il mondo degli esseri viventi sia finito o infinito, o infinito ed infinito, o né finito né non finito. In riferimento a qualsiasi affermazione a riguardo, i filosofi della scuola del cammino di mezzo hanno negato tutte e quattro queste possibilità, in quanto dimostrano (peraltro con rara capacità logico-argomentativa) che, separatamente o in combinazione non possono applicarsi ad alcun elemento dell’esperienza: l’universo delle parole, insieme a tutte le concettualizzazioni viene così annullato. In questo modo, tutte le posizioni concettualmente immaginabili sono esaurite, e qualsiasi tesi resta sospesa. Sebbene il metodo sia differente dall’epoché, l’esito che il tetralemma persegue e raggiunge è il medesimo: la messa tra parentesi della tesi. In virtù di questa proprietà, che segna la differenza tra il tetralemma e la semplice negazione, tra una posizione ed una non-posizione, reputo appropriato paragonare l’uno all’altro. Il metodo come si vede è una pura negazione senza alcuna affermazione, neppure sulla negazione ci si può soffermare perché sarebbe affermare la negazione, il sistema non è nichilista perché rifiuta anche l’atteggiamento negativo, a questo punto si sente che vi è bisogno di un completamento ed esso arriva non più raggiungendo una posizione, giacchè il sistema le ha eliminate tutte, ma con una Intuizione. La negazione quindi è indicatrice della caduta di un atteggiamento che si esprime solo mediante giudizi. Essa mostra che la realtà non accetta la nostra costruzione ideale, così come i principi logici non sono applicabili alla realtà. La negazione allora esprime solo la disperazione del pensiero, ma è allo stesso tempo l’apertura ad una nuova via, la via della intuizione.
La vacuità così è negativa solo per il pensiero, fino a che di ogni teoria non viene messa in luce l’assurdità della posizione che vorrebbe sostenere. Una assurdità che non è arbitraria ma che emerge quando si sviluppano logicamente tutte le conseguenze che derivano dagli assunti. Ogni posizione risultando relativa è quindi non vera in assoluto.
Il Madhyamica confuta la tesi dell’oppositore, e non dimostra una sua propria tesi, in questo caso, confutare la posizione opposta non significa necessariamente porre la verità della propria.
Con questo metodo vengono criticate le categorie fondamentali del Buddhismo antico: condizione, movimento, facoltà percettive, insieme dei dati psicofisici che compongono l’individuo umano, passioni che toccano il composto umano. L’esperienza sensibile, nella quale la realtà appare così come è, è immediatamente offuscata dal conoscere discorsivo, il quale falsifica automaticamente il dato reale, presentandocelo attraverso la lente deformante delle categorie di spazio e tempo, della causalità, della relazione, della divisione e non divisione, per questo motivo, attraverso il tetralemma vengono confutate.
Il metodo della scuola Nagarjuniana è stato accusato di relativismo ma si potrebbe parlare meglio di criticismo, in quanto consiste in una critica inesorabile di ogni dottrina, di ogni opinione, buddhistica e non buddhistica, di cui Nagarjuna mostra l’assurdità e l’intrinseca contradditorietà, mettendo in luce così la relatività del pensiero.
Il tetralemma ha proprio questa funzione, il fine è ancora una volta inibire quel "valere preliminarmente", che fonda l’intera vita pratica e teoretica, portandolo abitualmente nella vita naturale o del senso comune. Anche questa è una messa tra parentesi che vieta l’attuazione di qualsiasi giudizio, di qualsiasi presa di posizione predicativa nei confronti dell’essere e dell’essere così e di tutte le modalità d’essere dell’esistenza spazio-temporale del reale.