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14 Aprile 2010

Il luogo da Aristotele a Heidegger. Parte 2

Argomento: Filosofia

Nell'articolo precendente abbiamo visto come l'intendimento di luogo per Aristotele e per i greci sia diverso da quello moderno, nato probabilmente con la nascita dell'idea di spazio misurabile e profondamente radicata nella scienza e nella filosofia moderne. In questa puntata vedremo come Heidegger rilegge luogo aristotelelico introducendo la sua filosofia dell'essere.

Puntata 1 - Puntata 2 - Puntata 3

 

2. Heidegger sulla Physis e il luogo nei Greci

Aristotele ci ha lasciato come definizione di luogo tra l'altro la sua “immobilità”. Intendiamo noi oggi il movimento ancora alla maniera in cui lo intendeva Aristotele?

Da Martin Heidegger, che si è occupato intensamente per un trentennio di filosofia aristotelica, possiamo leggere che solo con Aristotele ‘l'essere mossi’ (Bewegtheit) è per la prima volta diventato evidente in un modo essenziale per l'uomo moderno:

“E' vero che già i pensatori prima di Aristotele hanno esperito che il cielo e il mare, le piante e gli animali sono in movimento; (…) e nonostante ciò lui ha come primo raggiunto quel gradino del domandare (...) su cui l'essere mossi viene interpellato e compreso come il modo fondamentale dell'essere.” [1]

 

Secondo Heidegger, oggi l'uomo a causa dell'influenza del pensiero meccanicistico tipico delle scienze moderne tende a pensare che ‘l'essere mossi’ (Bewegtsein) sia unicamente il muoversi da uno spazio ad un altro. Al contrario, il movimento in Aristotele sarebbe invece da intendere come modo fondamentale dell'essere: lo svelamento (Anwesung).

Quindi il fatto che il luogo è immobile potrebbe essere inteso non nel senso di un mancato movimento, ma che ‘luogo’ corrisponda allo svelamento di ‘ciò’ che è immobile (con questo “ciò” si intende ‘tutto’) e diviene manifesto tramite il ‘mosso’ (l’Universo).

Un forse azzardato parallelismo con la Differenza Ontologica potrebbe aiutarci a intendere meglio la definizione del luogo aristotelico: in Heidegger e nella Differenza tra essere ed ente, l’ente non può essere visto separato dall’essere. L’essere non è una proprietà dell’ente, non è qualcosa che si aggiunge all’ente. L'essere è il fatto che c'è ente. E questo lo intuiamo solo perché  al di fuori del tutto (dell’esistenza del tutto) non c’è niente.

Per Aristotele l'Universo è tutto ciò che c'è: “Non c'è alcuna altra cosa al di fuori del tutto, e perciò tutte le cose sono nel cielo: ché il cielo, s'intende, è il tutto!” (Ph IV)

Il fatto che Aristotele dica che l’Universo stesso non è il luogo, ma il luogo è “l’estremità del cielo, ed è immobile limite contiguo al corpo mobile”  non significa che il luogo sia in ultimo un’altra cosa rispetto all'Universo. A questo punto potremmo avanzare sulle parole forniteci da Martin Heidegger: che il luogo è... che c'è l'Universo (invece di non esserci).

Si può dire che c'è il luogo,  perché il tutto si dà e non è niente, ma dal momento che si dà, è incoglibile come un limite, come un punto:

“Il luogo è comunque in un 'dove', ma comunque non in un luogo, bensì come il limite nel limitato.” (Ph IV, 5).

Il seguente esempio ci farà ancora meglio intendere il concetto di limite in Aristotele.

Una domanda che spesso veniva posta nell'antichità rispetto all'Universo, considerato finito in Aristotele, era la seguente: l’Universo è finito nel senso di possedere un limite fisico, oltre al quale necessariamente non ci debba essere qualcosa?

Il filosofo greco Simplicio, con il seguente noto argomento, si chiedeva se trovandosi all'estremità dello spazio fosse possibile tendere la mano o un bastoncino fuori di quella: “Se io mi trovassi all'estremità dello spazio, ad esempio nel cielo delle stelle fisse, potrei tendere la mano o un bastoncino fuori di quella? O non potrei?” [2]

È chiaro che quando ci si interroga sull'esistenza e sull'immenso Universo questa ricerca non può essere fatta con distacco, ma si vive un profondo coinvolgimento e ci si chiede del senso di se stessi, del “luogo proprio”, come dice Aristotele, dell'esistenza.

In generale coloro che nell'Antichità discutevano sull'essere della natura e sull'esserci del mondo erano in realtà sempre guidati, dice Heidegger, dal dubbio e dalla paura che il continuo e perdurante circolo degli astri si sarebbe potuto fermare e che l’ente non ci sarebbe più stato: “La presenza di un tale ente (ciò che è da sempre essente n.d.t.) non è immaginata, ma vista nel movimento del cielo, vista però, non solo nella semplice osservazione, ma proprio dalla paura che ciò che è da sempre essente (Immer-Daseiende) si possa ad un certo punto fermare e scomparire dal “ci”.[3]

Questo sta in netto contrasto con coloro che oggi commentano Aristotele, i quali tendono a ridurre spesso le riflessioni aristoteliche sulla “natura” a puro calcolo, senza considerare il coinvolgimento dello stesso Aristotele nelle proprie riflessioni.

Secondo questi la “Fisica” di Aristotele è nata solamente da considerazioni oggettive e da un interesse di natura prettamente scientifica. Per Martin Heidegger invece, le domande dei Greci sulla natura, sulla physis, erano domande sentite (dunque non puramente concettuali), non astratte, strettamente connesse con il nostro stesso esserci. Spesso erano vere intuizioni metafisiche che permettevano ai Greci di intendere il mondo molto diversamente dalla concezione odierna:

“Questo senso di essere non è stato da qualche parte trovato dai Greci, ma è cresciuto a partire da una determinata esperienza dell’essere in quanto l’uomo vive in un mondo e in quanto il mondo è sotto la volta dell’ ouranos,  “cielo”, in quanto il mondo è  l’ouranos che in sé è racchiuso e finito”.[4]

Quindi anche in essi la domanda sull'Universo sorgeva dalla perplessità: che ne è di noi in questo immenso Universo?

La perplessità di Simplicio, se lui possa tendere la mano fuori dall'Universo oppure no, mostra come ci vediamo in qualche modo fuori dal tutto e non ci rendiamo conto che - assieme all'Universo - facciamo parte di esso.

Come può nascere dunque un domandare nuovo che riguardi il tutto (noi compresi)?

di Manuela Ritte
Redazione Asia.it

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 Note:

[1] M.Heidegger, Vom Wesen und Begriff der Physis, in Wegmarken, GA 9, Frankfurt/ Main: Vittorio Klostermann, pp. 243-244. Ed. it: Sull'essenza e sul concetto della Φýσις, in Segnavia
[2] Simplicio, Physika, 467,26.
[3] M. Heidegger, Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie, Ga 18, Frankfurt am Main: Vittorio Klostermann, p.39
[4] Ibid.




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